La storia di padre
Michele, vescovo comboniano dei poveri
La settimana
scorsa lo hanno buttato fuori. Il governo non ha mandato giù la sua continua e
coraggiosa denuncia delle ingiustizie che affossano il paese. Il petrolio
continua a scorrere abbondante e la gente sempre la stessa vita. Chi intasca
sono i soliti noti che si armano fino ai denti. Lui non ci sta e grida senza
paura. Una volta a pranzo si è scaldato sulla questione del petrolio e ha
cominciato a battere i pugni sulla tavola. La fame e sete di giustizia gli
scorrono nelle vene.
Hanno preso
come pretesto una sua omelia di fine settembre. Dicono che ha invitato la gente
a sollevarsi per la mancata redistribuzione delle ricchezze nazionali e dei
proventi del petrolio. Si sono però tirati la zappa sul piede: si sono
mobilitati per e con lui i cristiani, gli altri vescovi del Ciad, i comboniani,
il Vaticano. E poi così facendo dimostrano nei fatti quello che già si conosce:
non c’è libertà di pensiero e di parola in Ciad! Il settimanale N’Djamena
Bi-Hebdo è fermo per 3 mesi per aver pubblicato una petizione dei sindacati che
chiedevano al governo gli aumenti di salari dei lavoratori.
Si spera ora
che padre Michele possa tornare al suo posto, tra la nostra gente. E niente,
sono certo, può intimidirlo. Dopo 32 anni di Africa e 23 da vescovo non vedo
cosa debba risparmiarsi. Neanche la pelle. Il Ciad e la nostra Chiesa hanno
ancora bisogno di lui. Del suo coraggio, delle sue urla appassionate al fianco
dei poveri, della sua vita e profezia. Simbolo di una Chiesa dalla parte degli ultimi che sa rischiare sulla pelle quel Vangelo che annuncia.
Non ci metteranno
in silenzio. Quando le parole saranno vietate, non ci resterà che parlare con
la vita. Spezzata con e per la nostra gente. Fino in fondo.
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