Nel cuore del Ciad fermento e tensione alla
soglia delle elezioni
Sfrecciano in
direzione nord, verso Ati, in pieno Sahel, alla ricerca dell’oro. Le moto Honda
provenienti dai più diversi angoli del Ciad si moltiplicano in pochi attimi e
puntano verso i villaggi dove, recentemente, un pastore di cammelli ha scoperto
le tracce del metallo più prezioso. Per poco non si incrociano con i
fuoristrada dei politici super pagati (si parla di milioni di francs CFA) che
in dicembre, mentre sempre più giovani sono disoccupati e i professori nelle
scuole senza stipendio da mesi, girano allegramente il paese. Dicono di
coordinare le operazioni del primo censimento biometrico in vista delle
prossime elezioni di aprile. In realtà hanno già aperto la campagna con tanto
di bandiere e foulard dei colori soprattutto del partito al potere: l’MPS
(Movimento patriottico di salvezza).
La “febbre
dell’oro e della poltrona” contamina tutti. L’esercito interviene in modo
brutale senza risparmiare pallottole, feriti e morti sul terreno. I “metal
detector” e le moto vengono sistematicamente sequestrati. Le armi sempre più
sofisticate dei militari al soldo del presidente Idriss Deby, in carica dal
1990, difendono la ricchezza del sottosuolo dagli avventurieri predatori.
E’ un esercito
armato fino ai denti. Carri armati, bombe, missili e munizioni a non finire
sono nascosti tra la capitale N’Djamena e Am Djarass, il villaggio natale del
presidente Idriss Deby. Un piccolo villaggio nel deserto messo a nuovo con
tanto di aeroporto internazionale, palazzo presidenziale, ville e asfalto. Simbolo
del Ciad potente, divenuto in poco tempo “potenza militare regionale” pronto ad
intervenire ovunque (Mali, Centrafrica, Camerun, Nigeria) per riportare
stabilità nel Sahel devastato da terrorismo e ribellioni. Con tanto di lasciapassare
di Francia e Stati Uniti che curano per bene i loro interessi geostrategici nella
zona. Il patto è sempre lo stesso: “vi lasciamo una parte del petrolio se voi ci
assicurate la sicurezza nella zona”.
Ma Boko Haram fa paura. Gli attentati nella
capitale N’Djamena di giugno e luglio dell’anno scorso hanno lasciato il segno
nella vita quotidiana e nelle abitudini dei ciadiani. Ad Abéché, a due passi
dal Sudan, un giovane nigeriano viene fermato dalla polizia all’Università Adam
Barka. Nello zainetto diversi documenti falsi, carte telefoniche e un biglietto
con il nome di un certo “Hassan” che deve accoglierlo per “progettare il
piano”. Mentre alla frontiera con la Nigeria gli attentati di kamikaze suicida sono
all’ordine non del giorno ma della settimana. Mercati, scuole, piazze pubbliche
sono prese di mira per fare il maggior numero di morti e feriti. Da novembre
nella regione del Lago Ciad è in vigore lo Stato di emergenza. Come se non
bastasse l’emergenza del lago, il cui bacino si è ridotto del 50% negli ultimi
10 anni. Un dramma ecologico che mette a rischio la vita dei 40 milioni di
persone che ci vivono attorno. Ora con il terrore della violenza dentro casa.
La collera
della setta islamica che condanna ogni sorta di legame con l’occidente (Boko
Haram significa “il libro è vietato”) è stata accolta come naturale dal gruppo
etnico ciadiano dei Boulouma, da sempre dimenticato ed emarginato da N’Djamena.
Lo ha capito anche il presidente che da fine 2015 ha stanziato per lo sviluppo
della regione 4,5 milioni di francs CFA mirati alla costruzione di scuole e
ospedali. Bene il contrasto alla miseria con lo sviluppo. Ma al presidente
interessa davvero la popolazione o piuttosto il blocco del commercio?
Da tempo
infatti la frontiera con la Nigeria è chiusa a grave danno dell’economia
ciadiana. La Nigeria è un grande importatore del bestiame nonché del miglio,
delle arachidi e delle pelli di bovini ciadiani. Le dogane non fanno più
affari, l’economia stenta con il petrolio in caduta libera. Produttore dell’ “oro
nero” dal 2003 il Ciad è legato indissolubilmente ai proventi petroliferi: il
75% delle sue entrate viene dall’estrazione. Ma i soldi non circolano più come
prima. Il budget dello Stato era stato previsto con il prezzo del petrolio al
doppio dell’attuale. I conti non tornano e gli scioperi incalzano. Per le
strade si incrociano le proteste dei giovani disoccupati, le grida degli
insegnanti senza stipendio e la collera delle giovani ragazze che a metà
febbraio insorgono in tutto il paese per denunciare la violenza sessuale
perpetrata da un gruppo di studenti a danno di una coetanea. Tra loro il figlio
di un ministro che rischia poltrona e onore. Scuole chiuse in tutto il paese
per tre giorni e rischio di “bomba sociale” ad un passo dalle elezioni.
I riflettori
sono puntati su aprile per l’ennesima messa in scena di un teatro già visto. Un
opposizione divisa e a pezzi, salvo qualche rara novità, fa il gioco del
presidente che dopo il cambio della
costituzione, ormai 12 anni fa, si avvia inesorabilmente verso il quinto
mandato. Gli avversari gridano nel deserto senza mordere. Avevano giurato di
non presentarsi se i kits d’identificazione degli elettori non fossero stati
assicurati. Ma si sono ben presto rimangiati la parola nell’attesa di spartirsi
la torta con il vincitore che li ha comprati da tempo. Di giorno alzano la voce
e la notte tendono la mano. La campagna si fa a suon di francs CFA e Deby ne ha
da vendere. Non può permettersi di perdere sedia, soldi e onore ora che anche
l’Unione Africana lo ha messo sul trono, con un abile manovra politica, come
presidente di turno. Ha giurato subito di impegnarsi per il federalismo e per lottare contro il terrorismo e i
focolari di instabilità nel continente. Ma dovrà fare i conti in casa sua.
Prima che sia troppo tardi.
E prima
soprattutto che il processo Habré, in corso a Dakar, lo possa chiamare in causa
sul serio. Il terribile dittatore degli anni ’80 (1982-1990), Hissene Habré, è
finalmente a giudizio in Senegal accusato di crimini contro l’umanità per la
tortura, l’uccisione e il sequestro di più di 40.000 persone. In dicembre è
finito l’ascolto dei 93 testimoni che hanno raccontato di sangue, dolore e
violenze indicibili di quella pagina di storia scritta a lettere maiuscole
anche da Deby. Allora capo di Stato maggiore dell’esercito. Tradotto: dentro
fino al collo. Come la Francia che li ha sostenuti calcolando al ribasso il
rischio Gheddafi nella sua zona di influenza.
Sono trascorsi
più di trent’anni ma le ferite sono ancora aperte e la memoria del popolo
ciadiano è più che mai viva. Se tutti, dagli uomini politici ai religiosi, dai
commercianti ai funzionari, dagli agricoltori agli allevatori parlano
incessantemente della coabitazione pacifica è perché il rischio di rituffarsi
nella guerra civile è ancora alto. E il dente è avvelenato.
La sentenza di
Habré è attesa per maggio. Giusto la data del possibile ballottaggio. La
giustizia dei tribunali e il verdetto degli elettori sembrano rincorrersi.
Ce la faranno
i ciadiani a voltare finalmente pagina?