Dentro il campo dei
rifugiati di Kounoungou ad est del Ciad
di Filippo Ivardi Ganapini da Guereda
Alle cinque
del mattino, mentre il sole già si alza al ritmo del canto del muezzin che
invita alla preghiera, un asino con due bisacce piene d’acqua sulla schiena
entra nel centro di JRS (il servizio dei Gesuiti con i rifugiati) che ospita la
nostra missione itinerante e la piccola e attivissima comunità cristiana. Da
queste parti, nella regione del Ouaddai, ad est del Ciad vicino alla frontiera
con il Sudan, l’acqua è poca e costa. Si scava nei solchi degli wadi, i piccoli
ruscelli che in stagione delle piogge danno respiro alla natura, per trovare
vita in pieno Sahel.
Guereda è un
piccolo villaggio a 1000 metri di altezza nella regione di Dar Tama, la terra
dei tama, un popolo di allevatori e commercianti quasi interamente musulmano.
Gli abitanti sono nomadi ormai sedentarizzati che provano a coltivare il miglio
su una terra ostile, arida e poverissima di acqua. Alcuni vanno e vengono dal
vicinissimo Sudan a causa del commercio per poi rifugiarsi nelle piccole case
costruite in mattoni di terra cotta al sole. Che brucia e certo non manca da
queste parti, anche se la notte la fresca brezza dell’Harmattan, che proviene
dal deserto, rinfranca gli animi.
Nel 2004, in
seguito alla guerra scoppiata un anno prima nel vicino Darfur tra i ribelli
della regione e il potere centrale, una folla incredibile di gente ha chiesto
qui rifugio dopo aver perso tutto: case bruciate, bestiame rubato, terre invase,
pozzi avvelenati, donne violentate e tanti morti da parte delle milizie
Janjawid, i “diavoli a cavallo” al
soldo del governo di Khartoum. Considerati ribelli al regime e in combutta con
il Sud gli abitanti del Darfur sono sempre stati scomodi per il presidente
sudanese Al Bashir che non vuole perdere l’oro e il petrolio scoperti nella
regione e il prestigio del pieno controllo sul territorio. Scoppiato il
conflitto, la comunità internazionale è intervenuta tempestivamente, allestendo
diversi campi di accoglienza dei profughi, perché allora i riflettori
dell’attenzione mondiale hanno dato grande rilievo a questo angolo di mondo. Oggi
tutto questo è svanito e la “guerra a
bassa soglia” sembra interessare pochi addetti ai lavori.
Attorno a
Guereda, la risposta all’emergenza del
2004 non si è fatta attendere e due immensi campi, entrambi di circa 20.000
persone sono diventati casa per vari gruppi etnici tra cui i Fur, i Tama, gli
Zaghawa ei Massalit a Kounoungou, e la stragrande maggioranza di Zagawa, il
gruppo del presidente ciadiano Idriss Deby, a Mileh. Problemi di convivenza
pacifica tra etnie diverse ha causato la divisione dei gruppi nei campi.
Lingue, tradizioni e usanze così diverse nonché antiche rivalità interetniche e
tensioni a causa di furti di bestiame
non facilitano certo la prossimità e la solidarietà nella sofferenza.
Soprattutto quando un gruppo prevale troppo sugli altri a livello numerico.
A Kounoungou
camminiamo, con gli amici e il personale di JRS, tra le case che la gente si è
costruita man mano che dall’emergenza si è passati ad una situazione di maggiore
stabilità. Senza possibilità di ritorno definitivo. Anzi dall’inizio dell’anno sono
arrivati in Ciad, soprattutto nella zona di Tissi, al confine con Sudan e
Centrafrica più di 30.000 persone costrette a scappare da conflitti intercomunitari
per il controllo di territori ricchi di minerali.
Le case nel
campo rispecchiano la vita nel vicino Sudan. Sembra che ormai la gente si sia
installata e che provi a ricostruirsi una vita, per quanto possibile normale,
lontano dalla martoriata terra di origine. Si tratta di recinzioni in terra
cotta al sole e casette piccole rotonde con tetti ricavati dalla plastica dei
teloni che l’UNHCR (L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati)
ha donato al loro arrivo. Il primo riparo continua ancora a fare la sua parte e
a dettare l’importanza della memoria. Come i viveri, immagazzinati e
controllati giorno e notte sotto enormi tendoni, che vengono distribuiti una
volta al mese da Secadev, ong che si occupa di sicurezza alimentare, acqua e
sviluppo. Anche se poi è facile trovare i sacchi di sorgo proveniente dagli
Stati Uniti sui mercati locali. La gente, abituata al proprio cibo, preferisce
vendere e ricomprarsi dove possibile i propri prodotti. Comunque la
distribuzione del cibo resta la tappa annunciata e che nessuno osa perdersi.
Anche coloro che ritornano qualche tempo in Darfur per commercio e visita a
quello che rimane delle famiglie e delle case si presentano puntuali
all’appuntamento. Per poi ripartire. In effetti in giro per il campo durante il
giorno non incontriamo tanta gente: soltanto i primi studenti che hanno ripreso
le lezioni nelle scuole gestite da JRS, bambini che giocano e si avvicinano
curiosi dicendo “ca va?”, insegnanti e sorveglianti, alcune
donne che preparano i mattoni per le costruzioni e altre che tornano dai campi sul
dorso degli asini carichi dei prodotti della terra. Piccoli negozietti e un
ristorante con specialità sudanesi accolgono chi si ristora nel cammino. Gli
asili non hanno ancora riaperto le porte del nuovo anno scolastico e la
bellissima sala di incontro per i giovani è vuota. I programmi di formazione e
animazione lasciano piuttosto a desiderare e sembrano non attirare più di tanto.
Molti, durante il giorno, sono nei campi attorno perché il raccolto del miglio
si avvicina e gli altri sono in viaggio. Chi per il commercio, chi per visite,
chi per salute o lavoro, molti si assentano: i rifugiati non perdono certo il
loro carattere endemico di semi nomadi.
Cibo gratis,
scuole anche o quasi, medicinali e aiuti di ogni tipo dalle varie ong
internazionali e locali non li aiutano certo a prendere in mano il loro destino
dopo quasi 10 anni dall’esodo forzato. Le mani si piegano instancabili e
volentieri alla filosofia del chiedere sempre e comunque aiuto. Ma come potrà
andare avanti tale situazione? Fino a quando l’aiuto e l’assistenza
dall’esterno? Che tipo di incidenza effettiva hanno sulla popolazione e sulla
convivenza gli interventi e i progetti faraonici degli umanitari? Servono solo
progetti, soldi e reports o anche una presenza amica, vicina, che sa ascoltare
e condividere senza troppe pretese? Emergenza sempre oppure sviluppo? E la condivisione
del tempo assieme seduti a parlare sotto l’albero di idee, di culture e
abitudini diverse, servono a niente?
La vera sfida
è il futuro del campo. L’UNHCR sta lavorando per passare il testimone alle ong
locali e alla gestione auto partecipativa dei diversi gruppi etnici. Ma si
tratta di un lungo e rischioso processo perché grossi interessi economici e di
predominio sociale si scontrano. Assistiti per così lungo tempo sapranno gruppi
etnici così diversi coabitare insieme e organizzare con la nuova filosofia del
tirarsi su le maniche una possibilità di intesa e collaborazione sociale? Quale
strada intraprendere per chi ha perduto le proprie radici e si trova a
reinventare un’esistenza imprevista in terra straniera? La nostra presenza
missionaria può accompagnare e in che modo questo cammino di uscita dalla
dipendenza e di immersione nella fatica della dignità?
I problemi, le
sfide e le domande sono sul tavolo delle discussioni, dei budgets e delle
verifiche dei partner in questione. Ma anche e sempre nei cuori dei sudanesi
che chiedono spazio per vivere su quello scacchiere mondiale in cui sono ormai passati
di moda.