Commento libero al Vangelo di domenica 27 Ottobre 2013
Lc 18,9-14
In cammino
verso Gerusalemme, il centro del potere politico e religioso che affama la
gente di Galilea, Gesù racconta a chi si sente a posto e arrivato una storia
presa dalla vita, che può fare breccia nei cuori dei farisei perché
li provoca nel vivo! Il loro nome vuol direi “separati” dalla gente, perché il senso
di superiorità e rispetto minuzioso delle regole, li fa sentire migliori degli
altri. Un rischio molto forte per noi missionari-farisei! Nei giudizi sulla
nostra gente non risparmiamo critiche feroci che nascondono un considerarci su
un piano rialzato. E invece quanto cammino dobbiamo fare proprio noi che siamo
così spesso “separati” dalle gioie e speranze, tristezze e angosce della gente!
Nella preghiera al tempio il fariseo sta in piedi per farsi vedere e ringrazia Dio
per essere diverso dagli altri. Si mette in confronto, è concentrato su di sé,
si auto elogia per i suoi meriti, pensando così di comprare la benevolenza di
Dio per lui. Ma in fondo il suo dio è sé stesso, così al di sopra degli altri.
Ai nostri
cristiani di Abéché, la “città faro dell’Islam” in Ciad, non passa proprio nel
cuore e nella testa di fare confronti. Né con i musulmani né con altri.
Guardano a sé, come il pubblicano che resta a
distanza perché si sente indegno. Non osano fare elogi di sé, semmai il
contrario. Riconoscendo la loro piccolezza chiedono nella semplicità acqua,
pane, salute e lavoro. L’essenziale, senza tanti fronzoli. E il perdono
soprattutto! Delle molte cadute nel cammino e dell’adagiarsi naturale sulle
logiche e mentalità della società che mira ai soldi, prestigio, potere e
successo. Come riconoscono i fratelli e sorelle musulmani che in questi giorni
hanno festeggiato il “Tabaski”, la festa del sacrificio di Abramo. I pochi
ciadiani che hanno potuto sono partiti al grande pellegrinaggio alla Mecca, per
riconciliarsi con Allah e ritornare all’alleanza originaria, rappresentata
dalla pietra nera della Mecca.
I nostri
cristiani non sono così zelanti nel pagare la decima che potrebbe far
funzionare bene tutta la comunità. Anzi è un tasto dolente la coscienza
profonda di far parte di una comunità che deve prendersi in mano anche a
livello materiale e provare la dignità di vivere la propria fiducia in Dio. Il
dare con generosità e il mettere in comune stentano ancora. Ogni gruppo tende a
concentrarsi su di sé, perdendo di vista l’orizzonte dell’oltre, della comunità
e più in là ancora. Lo slancio missionario e il guardare fuori di sé, verso il
mondo musulmano che ci circonda non è evidente. Le ferite di una guerra per il
potere lunga trent’anni, che hanno provato a dipingere di religiosa, bruciano
ancora sulla pelle viva del popolo ciadiano.
E il digiuno?
Ma quale digiuno per gente che digiuna forzatamente da una vita! In pieno Sahel
il cibo non è mai scontato. Come l’acqua, che i bambini vanno a prendere
scavando nella sabbia degli wadi, i ruscelli, ormai secchi e che caricano sugli
asini per portare in città e guadagnare qualcosa. Ma i prezzi al mercato sono
alle stelle. “Prima non era così” mi racconta
Joachin, leader della comunità cristiana, da ventiquattro anni ad Abéché. “ Il cibo era accessibile. Ma quando sono
arrivati gli organismi internazionali, le ong e la Minurcat, la forza multinazionale
di pace, per la sicurezza della regione e l’accoglienza dei profughi dal
Darfur, i prezzi sono volati. E’ dura vivere ogni giorno così”.
Non sono un
modello i nostri cristiani “nomadi” di Abéché. Vengono dal sud per lavoro e non
sono originari di qui. Ma resistono assieme, lontani dalla propria terra e
spesso dalle famiglie, in condizioni dure di vita e di contesto non certo semplice.
Ma sono consapevoli della propria piccolezza e dei propri limiti e questa è la
vera preghiera! Quella che fa verità con sé stessi e con gli altri. Quella che
non ha pretese, che non si sente dalla parte giusta, che non fa confronti e non
può permettersi di disprezzare gli altri. Il vero dialogo con Dio che innalza i
piccoli e abbassa i grandi. Il Dio che ribalta le logiche umane e il corso
della storia, nonostante tutto.
“Credo nella potenza vera della preghiera”
diceva Daniele Comboni ai suoi missionari. Quella bomba atomica di una
relazione profonda con Gesù di Nazaret, che fa ti sentire talmente amato al
punto che nulla può fermarti. Neanche la morte. “ Io muoio ma la mia opera non morirà” dirà ai suoi missionari sul
letto di morte. Carica e passione missionaria alimentano ancora il cuore di
tanti che nel mondo provano il sogno di Dio, cercando di fare verità, mettendo
da parte, con grande fatica, la presunzione di essere a posto e la tentazione
di disprezzare gli altri. Per dire con il pubblicano: “ Dio, abbi misericordia di me peccatore!”
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