(Accolgo e pubblico con gioia una lettera di un grande amico)
di P. Andrea Facchetti – missionario saveriano in Mozambico
sedaqa@gmail.com
Carissimi e carissime,
è poco più di un mese che i piedi sono arrivati in
questo angolo di Africa: Mozambico, città di Dondo e dintorni, poco sopra il
20° parallelo dell'emisfero australe, a poche decine di chilometri dalla costa
dell'oceano Indiano. I passi camminati in questo tempo breve sono tanti e
belli. La sera guardo i piedi impolverati, felici di avere camminato. Le
strade qui sono di terra sabbiosa color giallo paglia: le impronte rimangano a
lungo. Mi giro indietro, ringrazio Chi è cammino, Chi chi mi fa camminare e Chi
mi prende per mano. Provo a sostare su alcune impronte e le condivido con voi.
Impronta
prima: la comunità e la sera successiva.
Ottima l'accoglienza in comunità, coadiuvata
anche dal parmigiano e dai salami scampati ai famigerati controlli
dell'aeroporto di Maputo. Siamo quattro, due italiani e due messicani: p.
Fabio, p. Polo, p. Enrique ed io. Come Missionari Saveriani siamo presenti
anche in altre tre comunità a nord ovest, verso l'interno, verso il fiume
Zambesi, a distanza di circa 400 km da Dondo. In tutto siamo dieci. Siamo pochi
e siamo qui da quattordici anni, vale a dire pochi: sono i primi passi, i
sentieri non sono autostrade prefabbricate, ma si fanno assieme camminando con
la gente. La sera successiva, un venerdì, abbiamo fatto Eucaristia,
celebrando la messa in parrocchia. Eucaristia potente di vita, canto e gioia
nella quale piedi, testa e cuore si mettono al posto delle mani per suonare il
tamburo. Prima della conclusione sono stato presentato alla comunità: con quel
poco di portoghese che ricordavo mi è venuto da dire che il giorno prima erano
arrivati in Mozambico i piedi, mentre dopo quella messa era arrivato anche il
cuore. Sì è così. Perché i piedi arrivano rapidi con l'aereo, mentre cuore e
testa non rispettano le leggi di tempo e spazio e a volte vanno più veloci,
mentre altre volte vanno un poco dopo.
Impronta seconda: mattina e pomeriggio.
Alla mattina
generalmente studio portoghese, che ho ripreso dopo avere messo nel cassetto
per qualche anno. Dovrei averne per pochi mesi. Entro i primi dell'anno
prossimo, terminato il portoghese, dovrei cominciare il cisena, la lingua
autoctona di origine bantu parlata nella regione. Per ora parlo cisungo: sono
nsungo (bianco) e parlo cisungo (cosa di bianco). Ci vuole tempo per parlare
cisena (cosa di sena) e, soprattutto, per diventare sena. Se non nella pelle,
fare del mio meglio per essere sena nella testa e nel cuore. Sono i primi passi
in una cultura altra che mi accoglie e cerco di farli in punta di piedi. Poi
terminato lo studio delle due lingue e fatti i primi passi nella cultura,
dovrei andare in una comunità dell'interno. Al pomeriggio, ho cominciato a
girare i quartieri di Dondo con la Pastoral da Caridade. La Pastoral da
Caridade sono nonne, tanto miti quanto combattive, che conoscono i malati, i
poveri, gli anziani: scambiano due chiacchiere, pregano e cantano con loro,
lavavano loro i piatti, vanno al pozzo a prendere l'acqua, danno un aiuto in
termini di cibo e indumenti se necessario. Insomma, ottime maestre di vita
e di Evangelo vissuto. Un osservatorio evangelico (e sociologico) per mettere
radici poco alla volta in questo popolo e in questa terra. Alcune nonne
parlano solo cisena. Difficile capirsi? Ma la prassi della ferialità è di aiuto
ad andare in fondo fino a quel substrato di umanità che precede le peculiarità
delle culture.
Impronta terza: il distretto e la
parrocchia di Dondo.
Dondo è città
capoluogo dell'omonimo distretto. I confini della parrocchia coincidono con
quelli del distretto. La parrocchia è quindi costituita dalle 12 comunità della
città (circa 75.000 persone) più altre 12 comunità fuori città, la più distante
a poco più di tre ore di macchina (chiaramente su strada non asfaltata). Ogni
comunità è ben organizzata e si gestisce in maniera pressoché
autonoma: non essendoci il prete, sono i laici, donne e uomini, che
preparano i momenti di preghiera, le celebrazioni domenicali, le catechesi. In
alcune comunità fuori città noi passiamo due volte all'anno, prima e dopo la
stagione delle piogge. In città riusciamo ad essere più presenti. Le abitazioni
della città sono per metà palhota, vale a dire capanne con tetto di capim
(arbusti e frasche) e per metà sono abitazioni di mattoni col tetto
rigorosamente in eternit. Anche la nostra casa è tra queste. L'unica casa a due
piani e col tetto in tegole è quella del governatore. L'eternit, bandito in
gran parte dei paesi del nord del mondo, qui è ovunque. Proprio a duecento
metri da casa nostra, c'è la Lusalite, grande fabbrica costruita dai portoghesi
in epoca coloniale, che fino ad un anno fa produceva eternit. Ora,
ufficialmente produce "fibrocemento", un surrogato dell'eternit che
non dovrebbe contenere amianto. Insomma, qui a due passi dalla Lusalite, tutto
è di eternit: tetti, cisterne d'acqua, pareti interne e porte delle case.
Addirittura alcuni dei pochi cartelli stradali sono di eternit.
Impronta quarta: Nhamizingherwa e
pensieri vari.
Nhamizingherwa,
villaggio di capanne sparse, è una delle 12 comunità fuori dalla città. E' la
più lontana, a tre ore e mezzo di jeep su sentieri di terra sabbiosa in mezzo
al silenzio e al sole infuocato della savana. Durante la stagione delle piogge
rimane isolata, circondata dall'acqua. Noi vi andiamo due o tre volte all'anno.
Si parte la mattina presto del sabato, si dorme in tenda o in palhota e si
torna la sera della domenica. Qualche settimana fa siamo stati
a Nhamizingherwa con Enrique e due catechisti che parlano bene il
sena. E' una delle comunità più recenti: la gente sta imparando a fare il segno
della croce. Mi sono messo anche io assieme ai bambini: Na zima ya Baba, na ya
Muana, na Dzimu Wacucena... La sera attorno al fuoco, il cielo di una notte
africana con stelle ancora senza nome sopra la testa, la preghiera che si fa
danza ritmata dal tamburo. E poi la mattina l'Eucaristia sotto il grande
albero. Affiora quel senso di Dio che è antropologicamente inscritto nel cuore
dell'uomo, prima ancora di sentire il nome dell'Uomo di Nazaret,. Quella
mattina mi sono alzato alle cinque per vedere il sole sorgere: palla di fuoco
rossa che si alza lentamente tra l'umidità spessa della notte, le sagome
poderose degli alberi e la sinfonia mistica degli uccelli. Dicevo grazie al Dio
della vita, poi la testa diventava un vortice di pensieri e mi chiedevo che ne
sarà quando anche lì arriverà una strada, il telefono, la coca cola, la tv...
Impronta quinta: 4 ottobre, Dia da Paz.
Il 4 ottobre in
Mozambico è il Dia da Paz, vale a dire il giorno della pace. Il 4 ottobre del
1992 furono infatti firmati a Roma gli accordi di pace, dopo una guerra civile
(esistono guerre civili?) fratricida che in 16 anni aveva ucciso più di un
milione di persone. Un milione di persone ammazzate in un paese che allora
contava circa quindici milioni di abitanti: fate i vostri conti. Quest'anno è
anche un po' speciale, dato che ricorrono i venti anni. Ovunque, dalle città ai
piccoli villaggi, ci sono state iniziative per non dimenticare la storia e per
dare radici alla memoria. Anche Dondo ha avuto la sua parte con danze, tamburi,
comizi, deposizione dei fiori al monumento. La gente ha voglia di pace e il
fare festa assieme è un volto di questa sete di pace. Non può non essere così.
Anche perché i 16 anni di guerra civile sono stati preceduti da 11 anni di
guerra di liberazione dal Portogallo, cominciata nel settembre del 1964 e
terminata con l'indipendenza, proclamata il 25 giugno del 1975, giorno in cui
nacque la Repubblica Popolare del Mozambico. Un paese in guerra dal 1964 al
1992 non può che volere la pace. Come molte altre guerre combattute in Africa,
anche quella in Mozambico ha avuto le sue responsabilità anche al di fuori del
paese. Due i fronti della guerra fratricida. Da una parte il Frelimo, che univa
diversi movimenti popolari protagonisti della lotta di liberazione e che,
raggiunta l'indipendenza del paese, optava per il socialismo. Dall'altra la
Renamo, sorta qualche anno dopo l'indipendenza, che aveva l'appoggio di
Sudafrica e Rhodesia, paesi nei quali vigeva il regime razzista dell'apartheid,
e degli Stati uniti che così facendo intendevano contrastare l'appoggio
sovietico al Frelimo. La storia si ripete: ancora oggi l'Africa è campo di
battaglia di guerre decise altrove. Perciò è obbligo non dimenticare e fare
memoria.
Alcune
impronte non sono la strada, ma almeno segnano la direzione. Vediamo se riesco
a rimanere fedele all'impegno di condividerne ogni tanto qualcuna.
Un caro saluto e um forte abraço!
Buona strada!
Andrea