Condannati all'ottimismo
Sono appena uscito dalla moschea
centrale di Abéché e l’euforia è alle stelle. E’ il “id al mawlid”, la festa della nascita di Maometto. I fratelli e
sorelle musulmani di Abéché ci hanno invitato e con il pastore protestante Osée
abbiamo voluto partecipare. Un ecumenismo e un dialogo interreligioso che sono
vita quotidiana qui alle porte del deserto. Molto prima che etichette e alte
teologie.
A Kalayt nel deserto del Sahara una
piccola ma impegnatissima comunità cristiana ci attende per la Messa. Arriviamo
dopo un viaggio di 5 ore e l’accoglienza è calorosissima: saluti e abbracci,
acqua e the. La Messa è un concentrato di gioia, canti e danze…Dio non
abbandona mai e lo abbiamo sentito sulla pelle. Loro sono dei coraggiosi perché
non c’è niente tutto attorno e non si produce niente: troppo poca l’acqua. Si
vive del commercio e dei prodotti che arrivano da Libia e Sudan. La notte
riunione fino a tardi con la comunità e poi la cena: riso e agnello.
A Tine, alla frontiera col Darfur, non
vedevano un prete da 6 anni! Ne hanno visti due d’un colpo: Abakar, confratello
sudanese del sud e me. La gioia delle donne non stava nella pelle e alle
offerte in processione ci hanno portato soldi, i pounds sudanesi, e un cartone
di pasta. Riunione infinita per ricominciare ad accompagnare la comunità
cristiana e poi cadiamo sfiniti sulla stuoia per dormire.
A Guereda, una piccola comunità
cristiana, soffia forte il vento freddo dell’Harmattan. Si dorme con le coperte…e
quando comunichiamo che abbiamo trovato i soldi per la costruzione della
chiesetta con le due sale per alfabetizzazione e biblioteca ci si scalda con la
danza.
A Iriba siamo ospiti dentro il
casermone delle Nazioni Unite. Dopo la messa dell’Epifania mangiamo pasta e
pollo con le mani. La comunità cristiana ci confida le sue pene e la sua difficoltà
e convivere con i musulmani. Che continuano a tirare sassi, forzare le porte la
notte, lasciare escrementi sulle maniglie. Poi visitiamo il villaggio che è quadruplicato
con l’arrivo dei rifugiati dal Darfur e delle organizzazioni umanitarie. Ci
accoglie con grande gioia il medico responsabile dell’ospedale: ubriaco perso
non finisce di ripetere che “siamo
condannati all’ottimismo”…una frase che ci marca dentro, nonostante l’alcool
e la difficoltà di pronunciarla. Passiamo a visitare il sultano che ci accoglie
col sorriso e ci chiede se episodi di teppismo si sono verificati ancora.
E così il tempo del Natale è passato.
Ma continua a scavare nel quotidiano. Lasciando tracce indelebili sul cammino…e
sulla sabbia dove la nostra macchina si è arenata e solo con l’aiuto di una
corda e di un camion che passava ce la siamo cavati. Un sacco di giovani si
sentono interpellati dalla Parola che trasforma, vengono a parlare, a
confessarsi a chiedere di essere accompagnati. I carcerati cantano a
squarciagola nella messa con l’aiuto di Emmanuel e Nabia, due ottimi coristi.
Una della guardie, cristiano, alla fine della messa dice: “ E’ la prima volta
che mi accorgo che ci sono dei cristiani qui in prigione…”
Siamo condannati all’ottimismo…
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