giovedì 25 febbraio 2016

Oltre Deby?




Nel cuore del Ciad fermento e tensione alla soglia delle elezioni

Sfrecciano in direzione nord, verso Ati, in pieno Sahel, alla ricerca dell’oro. Le moto Honda provenienti dai più diversi angoli del Ciad si moltiplicano in pochi attimi e puntano verso i villaggi dove, recentemente, un pastore di cammelli ha scoperto le tracce del metallo più prezioso. Per poco non si incrociano con i fuoristrada dei politici super pagati (si parla di milioni di francs CFA) che in dicembre, mentre sempre più giovani sono disoccupati e i professori nelle scuole senza stipendio da mesi, girano allegramente il paese. Dicono di coordinare le operazioni del primo censimento biometrico in vista delle prossime elezioni di aprile. In realtà hanno già aperto la campagna con tanto di bandiere e foulard dei colori soprattutto del partito al potere: l’MPS (Movimento patriottico di salvezza).

La “febbre dell’oro e della poltrona” contamina tutti. L’esercito interviene in modo brutale senza risparmiare pallottole, feriti e morti sul terreno. I “metal detector” e le moto vengono sistematicamente sequestrati. Le armi sempre più sofisticate dei militari al soldo del presidente Idriss Deby, in carica dal 1990, difendono la ricchezza del sottosuolo dagli avventurieri predatori.

E’ un esercito armato fino ai denti. Carri armati, bombe, missili e munizioni a non finire sono nascosti tra la capitale N’Djamena e Am Djarass, il villaggio natale del presidente Idriss Deby. Un piccolo villaggio nel deserto messo a nuovo con tanto di aeroporto internazionale, palazzo presidenziale, ville e asfalto. Simbolo del Ciad potente, divenuto in poco tempo “potenza militare regionale” pronto ad intervenire ovunque (Mali, Centrafrica, Camerun, Nigeria) per riportare stabilità nel Sahel devastato da terrorismo e ribellioni. Con tanto di lasciapassare di Francia e Stati Uniti che curano per bene i loro interessi geostrategici nella zona. Il patto è sempre lo stesso: “vi lasciamo una parte del petrolio se voi ci assicurate la sicurezza nella zona”.

 Ma Boko Haram fa paura. Gli attentati nella capitale N’Djamena di giugno e luglio dell’anno scorso hanno lasciato il segno nella vita quotidiana e nelle abitudini dei ciadiani. Ad Abéché, a due passi dal Sudan, un giovane nigeriano viene fermato dalla polizia all’Università Adam Barka. Nello zainetto diversi documenti falsi, carte telefoniche e un biglietto con il nome di un certo “Hassan” che deve accoglierlo per “progettare il piano”. Mentre alla frontiera con la Nigeria gli attentati di kamikaze suicida sono all’ordine non del giorno ma della settimana. Mercati, scuole, piazze pubbliche sono prese di mira per fare il maggior numero di morti e feriti. Da novembre nella regione del Lago Ciad è in vigore lo Stato di emergenza. Come se non bastasse l’emergenza del lago, il cui bacino si è ridotto del 50% negli ultimi 10 anni. Un dramma ecologico che mette a rischio la vita dei 40 milioni di persone che ci vivono attorno. Ora con il terrore della violenza dentro casa.

La collera della setta islamica che condanna ogni sorta di legame con l’occidente (Boko Haram significa “il libro è vietato”) è stata accolta come naturale dal gruppo etnico ciadiano dei Boulouma, da sempre dimenticato ed emarginato da N’Djamena. Lo ha capito anche il presidente che da fine 2015 ha stanziato per lo sviluppo della regione 4,5 milioni di francs CFA mirati alla costruzione di scuole e ospedali. Bene il contrasto alla miseria con lo sviluppo. Ma al presidente interessa davvero la popolazione o piuttosto il blocco del commercio? 

Da tempo infatti la frontiera con la Nigeria è chiusa a grave danno dell’economia ciadiana. La Nigeria è un grande importatore del bestiame nonché del miglio, delle arachidi e delle pelli di bovini ciadiani. Le dogane non fanno più affari, l’economia stenta con il petrolio in caduta libera. Produttore dell’ “oro nero” dal 2003 il Ciad è legato indissolubilmente ai proventi petroliferi: il 75% delle sue entrate viene dall’estrazione. Ma i soldi non circolano più come prima. Il budget dello Stato era stato previsto con il prezzo del petrolio al doppio dell’attuale. I conti non tornano e gli scioperi incalzano. Per le strade si incrociano le proteste dei giovani disoccupati, le grida degli insegnanti senza stipendio e la collera delle giovani ragazze che a metà febbraio insorgono in tutto il paese per denunciare la violenza sessuale perpetrata da un gruppo di studenti a danno di una coetanea. Tra loro il figlio di un ministro che rischia poltrona e onore. Scuole chiuse in tutto il paese per tre giorni e rischio di “bomba sociale” ad un passo dalle elezioni.

I riflettori sono puntati su aprile per l’ennesima messa in scena di un teatro già visto. Un opposizione divisa e a pezzi, salvo qualche rara novità, fa il gioco del presidente  che dopo il cambio della costituzione, ormai 12 anni fa, si avvia inesorabilmente verso il quinto mandato. Gli avversari gridano nel deserto senza mordere. Avevano giurato di non presentarsi se i kits d’identificazione degli elettori non fossero stati assicurati. Ma si sono ben presto rimangiati la parola nell’attesa di spartirsi la torta con il vincitore che li ha comprati da tempo. Di giorno alzano la voce e la notte tendono la mano. La campagna si fa a suon di francs CFA e Deby ne ha da vendere. Non può permettersi di perdere sedia, soldi e onore ora che anche l’Unione Africana lo ha messo sul trono, con un abile manovra politica, come presidente di turno. Ha giurato subito di impegnarsi per il federalismo  e per lottare contro il terrorismo e i focolari di instabilità nel continente. Ma dovrà fare i conti in casa sua. Prima che sia troppo tardi.

E prima soprattutto che il processo Habré, in corso a Dakar, lo possa chiamare in causa sul serio. Il terribile dittatore degli anni ’80 (1982-1990), Hissene Habré, è finalmente a giudizio in Senegal accusato di crimini contro l’umanità per la tortura, l’uccisione e il sequestro di più di 40.000 persone. In dicembre è finito l’ascolto dei 93 testimoni che hanno raccontato di sangue, dolore e violenze indicibili di quella pagina di storia scritta a lettere maiuscole anche da Deby. Allora capo di Stato maggiore dell’esercito. Tradotto: dentro fino al collo. Come la Francia che li ha sostenuti calcolando al ribasso il rischio Gheddafi nella sua zona di influenza. 

Sono trascorsi più di trent’anni ma le ferite sono ancora aperte e la memoria del popolo ciadiano è più che mai viva. Se tutti, dagli uomini politici ai religiosi, dai commercianti ai funzionari, dagli agricoltori agli allevatori parlano incessantemente della coabitazione pacifica è perché il rischio di rituffarsi nella guerra civile è ancora alto. E il dente è avvelenato.

La sentenza di Habré è attesa per maggio. Giusto la data del possibile ballottaggio. La giustizia dei tribunali e il verdetto degli elettori sembrano rincorrersi. 

Ce la faranno i ciadiani a voltare finalmente pagina?

mercoledì 23 dicembre 2015

Il sogno della rinascita



Per un Natale all’insegna di una nuova umanità
Lc 2,1-14



Questa nostra umanità o rinasce o si distrugge. Neanche tanto lentamente.

            O si incontra nei suoi molteplici volti o muore.

            Natale è rinascere insieme: musulmani, che celebrano qui al nord-est del Ciad il 23 la nascita del profeta Mohammad, e cristiani che celebrano il 24 la nascita di Gesù di Nazaret. L’incontro nel nome della nascita. 

            Sono a Koukou Angarana, a 260 km a sud di Abeché. Questa mattina sono stato con Nazzer, responsabile della comunità cristiana, a visitare l’imam e il sultano di Goz Beida. Ahmat Buhari, imam della grande moschea, ci riconosce e ci accoglie molto bene. Gli regaliamo il Messaggio dei Vescovi per il Natale. Parole di Pace che sfidano i grandi interessi. Stasera faremo lo stesso qui a Koukou. C’è aria di festa in giro per le strade e queste due feste così ravvicinate mi fanno sperare che l’umanità riparte nel segno della nascita. Di Gesù e di Mohammad. Della nostra umanità ferita al cuore.

            Rinascere insieme vuol dire celebrare insieme, fare festa insieme. Sentirci fratelli e sorelle che fanno parte della stessa umanità. Uniti nelle differenze. Fratelli e sorelle, cristiani e musulmani, che non si lasciano dividere dagli interessi beceri dei grandi Cesari del mondo seduti sui loro comodi e ben farciti conti bancari. Mentre più della metà della popolazione mondiale vive di stenti, sopravvive e anche non ce la fa. Anche qui in Ciad come 2000 e passa anni fa  é tempo di censimento organizzato dai grandi per sapere quanti voti (che saranno rubati!) e quante tasse  reclamare. A danno dei piccoli.

            Rinascere insieme è rischiare di mollare interessi e privilegi per cambiare radicalmente stile di vita. Per non vivere sulle spalle degli altri. Che sempre pagano le conseguenza: della materie prime rubate, delle armi svendute, del clima impazzito!

            In questo Natale penso ai nostri bambini ciadiani “enfants bouviers” venduti ai grandi proprietari di cammelli del nord e costretti a pascolarli. Piccoli pastori maltrattati, calpestati come i colleghi nei pressi di Betlemme. Penso ai bambini schiavi in Ciad e nel mondo che lavorano per un niente. A chi ha un fucile in mano per combattere non si sa chi. A chi ha un esplosivo pronto ad azionare in qualche mercato del nord della Nigeria o anche qui in Ciad.

            Penso ai profughi di questo mondo che chiude porte e frontiere dimenticando che la terra è di tutti. Dimenticando che paesi come il Ciad hanno accolto negli ultimi dieci anni più di 500.000  profughi provenienti dal Darfur, dal Centrafrica, dalla Nigeria. "Non c'era posto per loro sulla terra..."

            Penso a chi è in cammino col volto e il morale a terra  cacciato dalla sua terra e dalle sue radici.

            Penso alle nostre donne ciadiane e a tutte le donne tenute sempre sotto, senza piena dignità di parola e di vita.

            Penso a chi ha perso la bussola e non sa più perché sta al mondo.

            Penso al segno di un Dio, un bambino, che decide di fare causa comune con i vinti della terra per scrivere una nuova storia a partire da loro. Storia di rinascita, di liberazione, di incontro e dialogo, di pace fondata sulla verità, sulla libertà, sull’amore, sulla giustizia. Ricominciando dai piccoli per far rinascere un mondo radicalmente altro.

            Penso che quel bambino ci chieda oggi di rinascere insieme con una mentalità radicalmente nuova…cristiani e musulmani, di tutte le religioni ed etnie, del nord e del sud del mondo. Per un’umanità nuova degna del suo nome. Fatta di fratelli e sorelle. Che mette l’Uomo al centro e la sua dignità. E non l'impero del dio denaro.

 Per rinascere ci vuole una morte...alle armi, alle lotte per la terra, i dimanti, il petrolio, i soldi, l'Io...

            Se nasce e rinasce ancora è perché, nonostante tutto, Dio non si è ancora stancato di noi uomini.
            E non si stancherà mai…di sognare, di rischiare, di amare, di dare la vita, di rinascere…
             Sempre con l’Uomo nel cuore. E con la missione di renderlo felice davvero nel suo passaggio sulla terra. Fino ad essere, rinascere e vivere in Lui. La grande gioia della notte del Natale... che non si esaurisce...

            E  noi?                                    

lunedì 7 dicembre 2015

Passare all'altra riva...



Eco dal Ciad del pellegrinaggio di Francesco sulla terra sacra d'Africa

Abakar confratello sudsudanese me lo disse due anni fa: “Se davvero Papa Francesco sta dalla parte degli ultimi deve venire in Centrafrica”. 

Qui in Ciad sono due anni e mezzo che giunge il grido di quel popolo fratello e vicino di casa martoriato dagli interessi dei grandi della terra. Sangue e dolore di diamanti e petrolio camuffati in un conflitto tra cristiani e musulmani che non ha trovato gran eco sui media del mondo. Concentrati su bel altro…
Francesco, che porta nel cuore soltanto il Vangelo e i poveri della terra, come Gesù di Nazaret e Francesco di Assisi, ha ascoltato quel grido. E ha messo piede qui.

In Africa non conta tanto un discorso che viene da lontano, una lettera o una chiamata al telefono. Qui bisogna venire e incontrare faccia a faccia. La relazione personale, il volto, è al cuore della vita e delle culture africane che palpitano ancora nei diversi angoli del continente. Ferito, impoverito dai grandi della terra, spesso dimenticato da tutti ma con una voglia matta di riscatto, di rimettersi in piedi e di camminare.

L’ospite è ancora sacro qui, nonostante le varie culture africane, mescolate al peggio della globalizzazione occidentale, abbiano perduto molto dei valori originari. Essere visitati da qualcuno è segno di dignità e di importanza. Il fatto che Francesco sia venuto per la prima volta in Africa è già un segno enorme di speranza. “Siamo importanti! Valiamo agli occhi di Dio!”…sono questi i sentimenti che più circolano nei cuori africani…a tutte le latitudini. E non solo per i cristiani.

La tappa del Centrafrica è stata, a detta dello stesso papa, la prima pensata nel suo cuore. E nel cuore di un papa visto che è la prima volta per un vescovo di Roma di toccare questa terra. Sfidando la sicurezza che non poteva certo garantire tutte le certezze del caso, Francesco nell’aprire la porta della Cattedrale di Bangui, come la prima del Giubileo della misericordia, ha messo l’Africa al centro ribaltando le logica del mondo. Ha detto  che da quel momento Bangui, la capitale del Centrafrica, sarebbe diventata “capitale spirituale del mondo”. Sono parole di una portata enorme se consideriamo tutto il sangue versato in questi ultimi anni per le strade delle sue periferie e dei suoi quartieri. La gente era commossa, lo hanno applaudito a non finire ogni volta che parlava di pace e di fraternità. SI sono detti disposti a fare quello che lui chiede: perdonare senza condizioni. Per “passare all’altra riva” (Lc 8,22). Quella della riconciliazione e della fratellanza universale”.

Come ha ribadito Francesco nella visita-simbolo più forte del suo viaggio africano: l’incontro con la comunità musulmana nella Moschea centrale di Koundoukou à Bangui. Ha detto col coraggio del Vangelo: “Tra cristiani e musulmani siamo fratelli. Dobbiamo dunque considerarci come tali, comportarci come tali…chi dice di credere in Dio dev’essere anche un uomo o una donna di pace”. Parole forti che sono risuonate nella mia omelia di ieri qui ad Abéché, per dare coraggio al nostro cammino di incontro e di coabitazione pacifica con la stragrande maggioranza musulmana della città. Parole che hanno profondamente emozionato la gente. Isabelle, ragazza madre abbandonata dal marito, al termine della messa mi ha detto: “Questa è la direzione che Dio ci chiede. Andiamo avanti così. Grazie

Prima di arrivare in Centrafrica papa Francesco era passato da Kenya e Uganda.

In Kenya perché è il paese simbolo della sfida mondiale della nostra epoca: proteggere il creato riformando il modello di sviluppo perché sia più giusto, inclusivo e sostenibile. Visitando le baraccopoli di Nairobi ha gridato contro lo scandalo e la vergogna dell’umanità di costruire luoghi dove coabitano divari incredibili tra immensa ricchezza e enormi povertà. Con il suo passaggio e il suo grido ha voluto scuotere le coscienza mondiali e riportare al centro dell’attenzione globale fenomeni inumani e inauditi ai quali spesso ci siamo soltanto assuefatti. 

Qui in Ciad la gente ascoltava le sua parole alla radio, nei mercati tanti si riunivano attorno alle televisioni per vederlo e immedesimarsi nella folla. I nostri cristiani ricordano il 1990 quando venne in Ciad Giovanni Paolo II : a piedi la gente dai villaggi faceva chilometri e chilometri per andare ad ascoltarlo e a vederlo. E pochi mesi dopo il feroce dittatore Hissene Habré fu cacciato via dai ribelli che cominciarono una nuova era. Non rose e fiori ma certo meglio…

Visite che cambiano  la storia…

In Uganda Francesco ha voluto essere presente nell’anniversario dei 50 anni della canonizzazione dei martiri ugandesi. Sottolineando la testimonianza fino all’estremo dei giovani ragazzi che hanno scelto Gesù Cristo e non l’imperatore. Un gesto che parla ancora oggi dritto al cuore della Chiesa e della società ugandese. Capace di mettere al centro la forza dello Spirito che apre nuove strade: la lotta contro l’AIDS e l’accoglienza dei rifugiati.

Ora che i riflettori del mondo sono già ben lontani dall’Africa cosa resta?

Una speranza enorme da parte della gente semplice e di tutti i popoli africani in vista della pace e della fratellanza universale.

Una gioia grande di Dio e di Francesco per quest’incontro indimenticabile che fa la storia dell’Africa…e della Chiesa!

L’impegno quotidiano di chi si spende sul terreno giorno dopo giorno, laici, religiosi e religiose,lontano dai riflettori, per costruire giustizia e umanità contro la corrente del mondo. 

Con l’Africa nel cuore come Daniele Comboni che gridava: “O l’Africa o la morte”.