martedì 18 ottobre 2016

Il Rischio di Dio




Lc 15,11-32

Lettera agli amici

Mongo, 9 settembre 2016 – Festa di S. Pierre Clavert

Carissime/i un abbraccione ciadiano a tutte/i!
Finalmente mi faccio vivo. E’ stato un periodo tosto e soltanto ora, dal silenzio degli esercizi spirituali qui a Mongo, il centro del nostro immenso Vicariato (a 400 Km da Abéché!), riesco a mettere a fuoco. Vi scrivo in una data importante per noi del popolo comboniano: oggi è S. Pierre Clavert, uno che ha lottato per il riscatto degli schiavi afro in America del Sud. Porta bene e dà speranza.
Tornare nel silenzio è andare dritti all’essenziale: l’amore sconfinato di Dio! Se ne parla tanto in giro di “misericordia” in questo anno santo e fa bene al cuore…ma sento poco parlare del rischio, come una delle componente irrinunciabili dell’amore. Forse perché la nostra madre Chiesa fa fatica a rischiare e come tutte le madri gioca spesso la carta della prudenza. Ma non sempre, per me, è evangelica. E invece mi sembra che il nocciolo del Vangelo sia proprio il rischio: chi ama rischia. Il tutto per tutto. Soprattutto che l’altro non corrisponda al mio amore. E il primo a rischiare è proprio Dio: lascia andare il figlio che gli ha chiesto la sua parte di eredità. E lo fa nel silenzio. Quel silenzio oggi mi parla in modo nuovo: sì un silenzio che parla. Un silenzio che soffre. E infatti il Padre sarà in attesa sulla strada ad aspettare. Non comodo in casa sdraiato sulla stuoia, come si fa qui per riposare bevendo il the con i vicini. Con il sole di queste zone non si può stare sulla strada, a meno che non ci sia un grande albero. “Lo vide da lontano…” sono le stesse parole che riprese Lele Ramin per accogliere suo fratello Fabiano che andava da lui per riconciliarsi con Dio. Il Dio sulla strada che guarda lontano. Ha preso il rischio e ora vive la sua passione…ritornerà?
Così Dio rischia la libertà. E rischia grosso. Di questi tempi sembra proprio che questa umanità non trovi la bussola: la guerra in Siria al suo quinto anno, la Libia sottosopra, attentati dappertutto anche nel cuore dell’Europa…certo i più mediatizzati. E poi le guerre di cui non si parla come il Sud Sudan…i paesi sull’orlo del baratro come Congo e Burundi. Mancava il terremoto! Dio rischia davvero che il mondo vada alla deriva? Certo il rischio c’è ma la forza della vita è ancora più forte…e per la prima volta i musulmani d’Europa si sono riversati nelle Chiese per solidarietà…tra i volontari che scavavano sotto le macerie ad Amatrice ho visto che c’erano degli immigrati…l’importanza della scuola sta prendendo piede in Ciad a ritmi accelerati…qui tra cristiani e musulmani c’è incontro e collaborazione. Certo a volte difficile ma esiste. La sera cammino tranquillamente per i quartieri di Abéché, ormai la seconda città del Ciad, senza paura. Un gruppo di donne musulmane con disabilità ha messo in piedi un progetto con la nostra Caritas per formazione professionale in cucito. Un altro gruppo di donne musulmane vedove hanno progettato con noi una pressa per l’olio. La speranza è in circolo…si ricrea nelle piccole cose. Basta non chiudersi in casa e crederci…osare l’incontro con il diverso, che a volte è complicato, ma che Dio mi ha messo sulla strada perchùè la mia vita sia più aperta e più bella.
Dio rischia sulla strada. Oggi mi sento più che mai in questa pagina, sul ritorno verso il Padre, dopo alcuni mesi di fatica e di senso di abbandono. Dio rischia anche con me!
Le elezioni truccatissime in Ciad mi hanno fatto sentire, con alcuni amici minacciati di morte, del tutto in preda ad un gruppo di gente che ha tolto la dignità ad un intero popolo. Con l’appoggio interessato di Francia, Stati Uniti, Unione Europea! C’era speranza di cambiamento…in tanti hanno votato l’opposizione per poi vedere un risultato inventato con la complicità anche di cristiani ad alti livelli. Ovvio comprati! “O Dio o Mammona” diceva il Galileo. E quando ho detto nei denti ad un amica cristiana della CENI (Commissione Elettorale Nazione...indipendente?) che un giorno dovrà rendere conto davanti a Dio e al suo popolo della truffa elettorale, sono arrivate le intimidazioni. Con degli amici abbiamo scritto ai nostri Vescovi per chiedere una dichiarazione al paese. Hanno taciuto. Anzi, una dichiarazione l’hanno fatta ma per non scontentare nessuno. Ci hanno lasciati soli. Ci hanno detto che non avevamo prove…ma che prove vogliono? Alcuni dei nostri cristiani non sono stati lasciati liberi di votare, altri hanno perso il posto di lavoro, altri minacciati, chi ha visto truccare le schede…Dio continua a rischiare con gli uomini ma sono certo che arriverà il giorno della verità. Chi avrebbe mai pensato che il sanguinario dittatore ciadiano degli anni ’80, Hissene Habré, potesse finalmente essere giudicato colpevole e condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità?
La salute che non sempre tiene e diversi problemi con le comunità cristiane spesso tolgono il sonno. A volte mi sembra di rischiare poco con la fretta di cercare una soluzione alla svelta. Poi capisco che il vero rischio qui è quello di avere la pazienza di andare a fondo nel problema, ascoltare tutti e solo alla fine prendere una decisione. Senza tornare indietro.
Dio rischia e lo fa anche con la nostra comunità comboniana. Ci ha affidato una parrocchia immensa, estesa su 6 regioni. Non certo a taglia umana. Siamo dentro al Vicariato dell’Africa Centrale che fu affidato proprio a Daniele Comboni. Ma lui non riuscì mai ad arrivarci. E così oggi ci proviamo noi macinando chilometri su chilometri per raggiungere piccole comunità cristiane molto dinamiche: le più piccole con 15-20 membri, le più grandi con 200-250. Una ventina di comunità, le più lontane a 500 Km da Abéché. Tutte in fermento: chi sta costruendo la chiesetta, chi la biblioteca, chi la scuola, chi un pozzo! Sono molto organizzate con laici impegnati e in prima linea. Sembra il Regno di Dio in cantiere…il nostro compito è di accompagnarle, incoraggiarle, seguirle, formarle. In un oceano musulmano proviamo a costruire famiglia in dialogo. A testa alta e senza paura. E a fine settembre avremo ad Abéché la nostra terza Assemblea Generale.
Non abbiamo grande esperienza: siamo tutti alle prime armi. Il meno giovane è P. Abakar dal Sud Sudan che, appena rientrato, ci ha raccontato le atroci vicende della guerra che insanguina il suo paese e il suo popolo. A ferragosto ha colpito i cuori della nostra gente ad Abéché con parole durissime ma anche con la speranza che la vita è ancora più forte della morte. Chi ne parla della guerra in Sud Sudan? E delle Elezioni in Ciad? Esistiamo per il mondo? Certo per Dio sì e anche questo è il rischio che si è preso. Che gli uomini e le donne di oggi siano diventati così presuntuosi da dare importanza soltanto al piccolo orticello di casa e semmai del quartiere. Siamo al tempo della globalizzazione e ci ristringiamo nel nostro piccolo mondo! Alziamo muri…e sembra che alla Gran Bretagna non sia bastato uscire dal progetto dell’Europa comune ma vuole anche costruire un muro contro l’afflusso dei profughi!
Possibile che ci devastino le orecchie con le primarie in USA e delle elezioni in Africa non si danno nemmeno i risultati? Ma che mondo stiamo costruendo? Chi sa che ci sono state elezioni in Gabon contestate e che la gente scende in piazza (ci sono dei morti) per gridare verità?
Dicevo che siamo in tre comboniani senza grande esperienza: Bernard congolese, ha fatto due mesi in capitale per lo studio dell’arabo. Anch’io ci sto dando sotto proprio per arrivare a parlare meglio con la gente, a leggere e capire il contesto. Vogliamo dialogare con l’islam, quindi la lingua è essenziale. Bernard è stato ordinato prete l’anno scorso: si dà molto da fare, è giovane e sveglio, una benedizione di Dio. Spesso ci parla del dramma del suo popolo: ora sono davvero in bilico perché a dicembre il mandato del presidente Kabila scade e non se ne vuole andare. Sale la tensione e la società civile non molla…il Dio che rischia.
Io ho appena festeggiato in luglio i 5 anni di ordinazione (il 9 proprio l’anniversario del Sud Sudan). Come 5 anni fa ho lavato ancora i piedi durante la messa. Questa volta a Joachin, il nostro papà veterano ad Abéché e a mama Isa, una donna straordinaria, insegnante e coordinatrice della nostra piccola Caritas. Due figlie, abbandonata dal marito, sempre attenta agli ultimi. Spesso ci fa arrivare a casa una buona “boule”, la polenta tradizionale con la “sauce longue”, tipica del sud. Dopo la messa the e biscotti tradizionali per tutti.
Dobbiamo tanto imparare. Ma almeno, dopo un lungo lavoro in equipe, quest’anno abbiamo il primo progetto pastorale del Vicariato. Abbiamo coinvolto tutte le comunità, raccolto questionari e poi con i laici rappresentanti di tutte le parrocchie abbiamo scritto un progetto per i prossimi sei anni sul tema della “prise en charge”, che è il prendere in mano il nostro destino. A tutti i livelli: la fede, i cristiani impegnati, l’economia, il sociale. Si tratta di dignità e fierezza dell’essere cristiani: un dono che deve prendere più il volto africano e ciadiano dopo che i primi missionari europei hanno cominciato a raccogliere i frutti che lo Spirito aveva già da tempo seminato in questa terra. “O sei vivo e sei fiero o sei morto” diceva sempre Steve Biko, leader della lotta contro l’apartheid in Sudafrica. Quindi proviamo a stare in piedi, fieri di essere uomini e donne cristiani in dialogo con l’islam per costruire Regno di Dio. Come ci ha insegnato il vescovo Oscar Romero, martire della giustizia in Salvador, che abbiamo preso come nostro testimone di riferimento. Anche in questo Dio si prende un rischio.
Ma chiede anche a noi di rischiare…l’osso del collo! Rischiare la libertà e la felicità vera…e per andare contro la corrente di un mondo disorientato credo che oggi ci indichi la strada da rischiare:
·         Il rischio del silenzio (quello del Vangelo e del Padre che lascia andare il figlio, non quello dell’omissione o dell’omertà contro l’ingiustizia!) contro la presunzione di questo sistema di morte. E’ davvero urgente recuperare la bellezza del silenzio per ascoltare Dio e la sua Parola, ma anche la natura, e noi stessi, il profondo dell’io interiore. Così potremo rispondere alla domanda di Isaia: “Sentinella, a che punto siamo della notte?” (Is 21,11)
·         Il rischio della resistenza contro la violenza: in un mondo sempre più violento e armato sento il richiamo a non demordere sulla certezza che l’altro è mio fratello, è mia sorella e che per proteggerli sono chiamato a lasciarmi disarmare contro ciò che ostacola la fratellanza e tutto ciò che esercita potere e dominio sull’altro. Sono chiamato ad uno stile di vita radicalmente nuovo in tutti gli ambiti dell’esistenza a partire dal primato delle relazioni.
·         Il rischio del coraggio contro la paura: in un mondo che vorrebbe farci chiudere in casa sento la necessità di uscire fuori per organizzare la speranza, darle dei riferimenti concreti. Con i piedi a terra e il sogno ben in alto. A cominciare da piccoli gruppi di gente che ci crede, dalle piccole comunità cristiane di base…
Forse alla fine il rischio più grande è quello da non prendere: il rischio che le situazioni della vita per quanto dure e dolorose scelgano sempre per noi. E non scegliere da che parte stare è il rischio di essere tristi e di attraversare questa vita senza passione.
Il momento è certamente duro…ma il Padre vede da lontano…qualcosa si muove…qualcuno sta tornando. Sei te? Sono io? Siamo noi? O è finalmente un popolo nuovo in cammino…
Allora si riaccende la speranza di un umanità nuova: l’anello è pronto, i sandali quasi, l’abito più bello è solo da stirare. E il profumo del vitello grasso riscalda ancora il cuore e la passione di questa umanità dalle vene aperte… in cammino.
Vostro sempre,
Filo

Oltre Deby?





Nel cuore del Ciad fermento e timore alla soglia delle elezioni

marzo 2016

Sfrecciano in direzione nord, verso Ati, in pieno Sahel, alla ricerca dell’oro. Le moto Honda provenienti dai più diversi angoli del Ciad si moltiplicano in pochi attimi e puntano verso i villaggi dove, recentemente, un pastore di cammelli ha scoperto le tracce del metallo più prezioso. Per poco non si incrociano con i fuoristrada dei politici super pagati (si parla di milioni di francs CFA) che in dicembre, mentre sempre più giovani sono disoccupati e i professori nelle scuole senza stipendio da mesi, girano allegramente il paese. Dicono di coordinare le operazioni del primo censimento biometrico in vista delle prossime elezioni di aprile. In realtà hanno già aperto la campagna con tanto di bandiere e foulard dei colori soprattutto del partito al potere: l’MPS (Movimento patriottico di salvezza). 

La “febbre dell’oro e della poltrona” contamina tutti. L’esercito interviene in modo brutale senza risparmiare pallottole, feriti e morti sul terreno. I “metal detector” e le moto vengono sistematicamente sequestrati. Le armi sempre più sofisticate dei militari al soldo del presidente Idriss Deby, in carica dal 1990, difendono la ricchezza del sottosuolo dagli avventurieri predatori.

E’ un esercito armato fino ai denti. Carri armati, bombe, missili e munizioni a non finire sono nascosti tra la capitale N’Djamena e Am Djarass, il villaggio natale del presidente Idriss Deby. Un piccolo villaggio nel deserto messo a nuovo con tanto di aeroporto internazionale, palazzo presidenziale, ville e asfalto. Simbolo del Ciad potente, divenuto in poco tempo “potenza militare regionale” pronto ad intervenire ovunque (Mali, Centrafrica, Camerun, Nigeria) per riportare stabilità nel Sahel devastato da terrorismo e ribellioni. Con tanto di lasciapassare di Francia e Stati Uniti che curano per bene i loro interessi geostrategici nella zona. Il patto è sempre lo stesso: “vi lasciamo una parte del petrolio se voi ci assicurate la sicurezza nella zona”.

 Ma Boko Haram fa paura. Gli attentati nella capitale N’Djamena di giugno e luglio dell’anno scorso hanno lasciato il segno nella vita quotidiana e nelle abitudini dei ciadiani. Ad Abéché, a due passi dal Sudan, un giovane nigeriano viene fermato dalla polizia all’Università Adam Barka. Nello zainetto diversi documenti falsi, carte telefoniche e un biglietto con il nome di un certo “Hassan” che deve accoglierlo per “progettare il piano”. Mentre alla frontiera con la Nigeria gli attentati di kamikaze suicida sono all’ordine non del giorno ma della settimana. Mercati, scuole, piazze pubbliche sono prese di mira per fare il maggior numero di morti e feriti. Da novembre nella regione del Lago Ciad è in vigore lo Stato di emergenza. Come se non bastasse l’emergenza del lago, il cui bacino si è ridotto del 50% negli ultimi 10 anni. Un dramma ecologico che mette a rischio la vita dei 40 milioni di persone che ci vivono attorno. Ora con il terrore della violenza dentro casa.

La collera della setta islamica che condanna ogni sorta di legame con l’occidente (Boko Haram significa “il libro è vietato”) è stata accolta come naturale dal gruppo etnico ciadiano dei Boulouma, da sempre dimenticato ed emarginato da N’Djamena. Lo ha capito anche il presidente che da fine 2015 ha stanziato per lo sviluppo della regione 4,5 milioni di francs CFA mirati alla costruzione di scuole e ospedali. Bene il contrasto alla miseria con lo sviluppo. Ma al presidente interessa davvero la popolazione o piuttosto il blocco del commercio? 

Da tempo infatti la frontiera con la Nigeria è chiusa a grave danno dell’economia ciadiana. La Nigeria è un grande importatore del bestiame nonché del miglio, delle arachidi e delle pelli di bovini ciadiani. Le dogane non fanno più affari, l’economia stenta con il petrolio in caduta libera. Produttore dell’ “oro nero” dal 2003 il Ciad è legato indissolubilmente ai proventi petroliferi: il 75% delle sue entrate viene dall’estrazione. Ma i soldi non circolano più come prima. Il budget dello Stato era stato previsto con il prezzo del petrolio al doppio dell’attuale. I conti non tornano e gli scioperi incalzano. Per le strade si incrociano le proteste dei giovani disoccupati, le grida degli insegnanti senza stipendio e la collera delle giovani ragazze che a metà febbraio insorgono in tutto il paese per denunciare la violenza sessuale perpetrata da un gruppo di studenti a danno di una coetanea. Tra loro il figlio di un ministro che rischia poltrona e onore. Scuole chiuse in tutto il paese per tre giorni e rischio di “bomba sociale” ad un passo dalle elezioni.

I riflettori sono puntati su aprile per l’ennesima messa in scena di un teatro già visto. Un opposizione divisa e a pezzi, salvo qualche rara novità, fa il gioco del presidente  che dopo il cambio della costituzione, ormai 12 anni fa, si avvia inesorabilmente verso il quinto mandato. Gli avversari gridano nel deserto senza mordere. Avevano giurato di non presentarsi se i kits d’identificazione degli elettori non fossero stati assicurati. Ma si sono ben presto rimangiati la parola nell’attesa di spartirsi la torta con il vincitore che li ha comprati da tempo. Di giorno alzano la voce e la notte tendono la mano. La campagna si fa a suon di francs CFA e Deby ne ha da vendere. Non può permettersi di perdere sedia, soldi e onore ora che anche l’Unione Africana lo ha messo sul trono, con un abile manovra politica, come presidente di turno. Ha giurato subito di impegnarsi per il federalismo  e per lottare contro il terrorismo e i focolari di instabilità nel continente. Ma dovrà fare i conti in casa sua. Prima che sia troppo tardi.

E prima soprattutto che il processo Habré, in corso a Dakar, lo possa chiamare in causa sul serio. Il terribile dittatore degli anni ’80 (1982-1990), Hissene Habré, è finalmente a giudizio in Senegal accusato di crimini contro l’umanità per la tortura, l’uccisione e il sequestro di più di 40.000 persone. In dicembre è finito l’ascolto dei 93 testimoni che hanno raccontato di sangue, dolore e violenze indicibili di quella pagina di storia scritta a lettere maiuscole anche da Deby. Allora capo di Stato maggiore dell’esercito. Tradotto: dentro fino al collo. Come la Francia che li ha sostenuti calcolando al ribasso il rischio Gheddafi nella sua zona di influenza. 

Sono trascorsi più di trent’anni ma le ferite sono ancora aperte e la memoria del popolo ciadiano è più che mai viva. Se tutti, dagli uomini politici ai religiosi, dai commercianti ai funzionari, dagli agricoltori agli allevatori parlano incessantemente della coabitazione pacifica è perché il rischio di rituffarsi nella guerra civile è ancora alto. E il dente è avvelenato.

La sentenza di Habré è attesa per maggio. Giusto la data del possibile ballottaggio. La giustizia dei tribunali e il verdetto degli elettori sembrano rincorrersi. 

Ce la faranno i ciadiani a voltare finalmente pagina?

mercoledì 30 marzo 2016

Vai Luciano...

A fratello Luciano Scaccaglia, nel giorno del passaggio

                                                                  Abeche, 30 marzo 2016

                            Luciano carissimo sei sempre stato un passo avanti, come i profeti che
                                 facciamo fatica a capire...con quella passione per Gesù di Nazaret e
                            per il Vangelo che entusiasmano e contagiano...grazie di cuore per la
                            tua testimonianza, per il tuo crederci fino in fondo senza paura!

                            Porto nel cuore gli incontri con te nel tuo studio, quella messa che
                            mi hai chiesto in Santa Cristina con i fratelli e sorelle immigrati,
                            la marcia insieme con i lavoratori per i loro diritti sotto la pioggia
                            e poi..i libri preziosissimi che mi hai regalato.

                            Ma il momento più bello l'anno scorso in ospedale vedere il tuo
                            sorriso e la tua voglia di vivere...poi quella preghiera
                            insieme...quella dove ci troviamo ora e sempre nel suo Regno.

                           Grazie ancora fratello Luciano,,,e andiamo avanti fino in fondo come
                           tu mi hai insegnato con quella passione travolgente per la
                           giustizia...sempre avanti sulla strada
                           Ti abbraccio forte
                           Sempre tuo fratello e amico nel cammino...

                                                                                     Filo

martedì 22 marzo 2016

Passando...nel segno di Oscar




 Siamo in tre preti comboniani. Dal Congo, dal Sud Sudan e dall’Italia. In una comunità cristiana tra le più vaste al mondo. Comunità di comunità: Abéché al centro e poi tutt’attorno altre 18 comunità che provano ad essere in questo oceano musulmano sale della terra e luce del mondo. Come voleva il Galileo.

La comunità più vicina si chiama Amloyna a 60 Km. Comunità cristiana dove cattolici e protestanti convivono e pregano bene insieme. Segno di un ecumenismo nella vita rasoterra e non sui libri. La più lontana è Tissi a 600 Km a sud al confine con Centrafrica e Sudan.  Dopo due anni e mezzo non ci siamo ancora arrivati. Ma ci stiamo attrezzando. Per arrivare nelle sei regioni che serviamo. Solo dei matti, con una sola macchina, possono osare nel deserto una missione così!

Sì, ci stiamo organizzando per preparare l’incontro, il passaggio di Dio nella nostra vita.

 Passaggio da curare, preparare nei dettagli, attendere e amare. Soprattutto da sudare con il caldo bestia di sti tempi.

Passaggio da comunità disperse a popolo di Dio in cammino insieme.

Passaggio da visite improvvisate a incontri regolari con le comunità almeno una voltaogni tre mesi.

Passaggio da una visione “clero centrica” ad una visione missionaria con la “Parola di Dio” al centro dove i laici sono i veri protagonisti. 

Passaggio da sogni a progetti concreti per l’acqua a Koukou e Goz Beida, per la scuola a Abeche, Oum Hadjer e Adré e per la formazione professionale di donne musulmane ai margini.

Passaggio da religioni che si guardano di traverso a cristiani e musulmani che si incontrano, si conoscono, parlano, si rispettano e lavorano insieme.

Passaggio da buone intenzioni ad un programma pastorale comune improntato sul prendere in mano il nostro destino a tutti i livelli. Senza dipendere da aiuti esterni.

Passaggio da un Vicariato un po’ ingarbugliato ad una Chiesa che sia davvero famiglia di Dio. Per questo ci siamo ritrovati a Mongo in febbraio (al centro del nostro immenso Vicariato a 400 Km da Abeche) tra delegati di tutte le parrocchie per redigere il nostro primo progetto pastorale nel segno della fierezza di prendere in mano il nostro destino.

E’ il passaggio, la Pasqua, dalla morte alla vita, dalla schiavitù alla libertà.

Nel segno di Oscar Romero che abbiamo preso come testimone per la nostra Chiesa di frontiera e che ci parla così oggi per la nostra terra:

Come cristiani non crediamo alla morte senza resurrezione.
Se ci uccidono risusciteremo nel popolo ciadiano

Buon passaggio a tutti
Vostro fratello e amico
Filo

giovedì 25 febbraio 2016

Oltre Deby?




Nel cuore del Ciad fermento e tensione alla soglia delle elezioni

Sfrecciano in direzione nord, verso Ati, in pieno Sahel, alla ricerca dell’oro. Le moto Honda provenienti dai più diversi angoli del Ciad si moltiplicano in pochi attimi e puntano verso i villaggi dove, recentemente, un pastore di cammelli ha scoperto le tracce del metallo più prezioso. Per poco non si incrociano con i fuoristrada dei politici super pagati (si parla di milioni di francs CFA) che in dicembre, mentre sempre più giovani sono disoccupati e i professori nelle scuole senza stipendio da mesi, girano allegramente il paese. Dicono di coordinare le operazioni del primo censimento biometrico in vista delle prossime elezioni di aprile. In realtà hanno già aperto la campagna con tanto di bandiere e foulard dei colori soprattutto del partito al potere: l’MPS (Movimento patriottico di salvezza).

La “febbre dell’oro e della poltrona” contamina tutti. L’esercito interviene in modo brutale senza risparmiare pallottole, feriti e morti sul terreno. I “metal detector” e le moto vengono sistematicamente sequestrati. Le armi sempre più sofisticate dei militari al soldo del presidente Idriss Deby, in carica dal 1990, difendono la ricchezza del sottosuolo dagli avventurieri predatori.

E’ un esercito armato fino ai denti. Carri armati, bombe, missili e munizioni a non finire sono nascosti tra la capitale N’Djamena e Am Djarass, il villaggio natale del presidente Idriss Deby. Un piccolo villaggio nel deserto messo a nuovo con tanto di aeroporto internazionale, palazzo presidenziale, ville e asfalto. Simbolo del Ciad potente, divenuto in poco tempo “potenza militare regionale” pronto ad intervenire ovunque (Mali, Centrafrica, Camerun, Nigeria) per riportare stabilità nel Sahel devastato da terrorismo e ribellioni. Con tanto di lasciapassare di Francia e Stati Uniti che curano per bene i loro interessi geostrategici nella zona. Il patto è sempre lo stesso: “vi lasciamo una parte del petrolio se voi ci assicurate la sicurezza nella zona”.

 Ma Boko Haram fa paura. Gli attentati nella capitale N’Djamena di giugno e luglio dell’anno scorso hanno lasciato il segno nella vita quotidiana e nelle abitudini dei ciadiani. Ad Abéché, a due passi dal Sudan, un giovane nigeriano viene fermato dalla polizia all’Università Adam Barka. Nello zainetto diversi documenti falsi, carte telefoniche e un biglietto con il nome di un certo “Hassan” che deve accoglierlo per “progettare il piano”. Mentre alla frontiera con la Nigeria gli attentati di kamikaze suicida sono all’ordine non del giorno ma della settimana. Mercati, scuole, piazze pubbliche sono prese di mira per fare il maggior numero di morti e feriti. Da novembre nella regione del Lago Ciad è in vigore lo Stato di emergenza. Come se non bastasse l’emergenza del lago, il cui bacino si è ridotto del 50% negli ultimi 10 anni. Un dramma ecologico che mette a rischio la vita dei 40 milioni di persone che ci vivono attorno. Ora con il terrore della violenza dentro casa.

La collera della setta islamica che condanna ogni sorta di legame con l’occidente (Boko Haram significa “il libro è vietato”) è stata accolta come naturale dal gruppo etnico ciadiano dei Boulouma, da sempre dimenticato ed emarginato da N’Djamena. Lo ha capito anche il presidente che da fine 2015 ha stanziato per lo sviluppo della regione 4,5 milioni di francs CFA mirati alla costruzione di scuole e ospedali. Bene il contrasto alla miseria con lo sviluppo. Ma al presidente interessa davvero la popolazione o piuttosto il blocco del commercio? 

Da tempo infatti la frontiera con la Nigeria è chiusa a grave danno dell’economia ciadiana. La Nigeria è un grande importatore del bestiame nonché del miglio, delle arachidi e delle pelli di bovini ciadiani. Le dogane non fanno più affari, l’economia stenta con il petrolio in caduta libera. Produttore dell’ “oro nero” dal 2003 il Ciad è legato indissolubilmente ai proventi petroliferi: il 75% delle sue entrate viene dall’estrazione. Ma i soldi non circolano più come prima. Il budget dello Stato era stato previsto con il prezzo del petrolio al doppio dell’attuale. I conti non tornano e gli scioperi incalzano. Per le strade si incrociano le proteste dei giovani disoccupati, le grida degli insegnanti senza stipendio e la collera delle giovani ragazze che a metà febbraio insorgono in tutto il paese per denunciare la violenza sessuale perpetrata da un gruppo di studenti a danno di una coetanea. Tra loro il figlio di un ministro che rischia poltrona e onore. Scuole chiuse in tutto il paese per tre giorni e rischio di “bomba sociale” ad un passo dalle elezioni.

I riflettori sono puntati su aprile per l’ennesima messa in scena di un teatro già visto. Un opposizione divisa e a pezzi, salvo qualche rara novità, fa il gioco del presidente  che dopo il cambio della costituzione, ormai 12 anni fa, si avvia inesorabilmente verso il quinto mandato. Gli avversari gridano nel deserto senza mordere. Avevano giurato di non presentarsi se i kits d’identificazione degli elettori non fossero stati assicurati. Ma si sono ben presto rimangiati la parola nell’attesa di spartirsi la torta con il vincitore che li ha comprati da tempo. Di giorno alzano la voce e la notte tendono la mano. La campagna si fa a suon di francs CFA e Deby ne ha da vendere. Non può permettersi di perdere sedia, soldi e onore ora che anche l’Unione Africana lo ha messo sul trono, con un abile manovra politica, come presidente di turno. Ha giurato subito di impegnarsi per il federalismo  e per lottare contro il terrorismo e i focolari di instabilità nel continente. Ma dovrà fare i conti in casa sua. Prima che sia troppo tardi.

E prima soprattutto che il processo Habré, in corso a Dakar, lo possa chiamare in causa sul serio. Il terribile dittatore degli anni ’80 (1982-1990), Hissene Habré, è finalmente a giudizio in Senegal accusato di crimini contro l’umanità per la tortura, l’uccisione e il sequestro di più di 40.000 persone. In dicembre è finito l’ascolto dei 93 testimoni che hanno raccontato di sangue, dolore e violenze indicibili di quella pagina di storia scritta a lettere maiuscole anche da Deby. Allora capo di Stato maggiore dell’esercito. Tradotto: dentro fino al collo. Come la Francia che li ha sostenuti calcolando al ribasso il rischio Gheddafi nella sua zona di influenza. 

Sono trascorsi più di trent’anni ma le ferite sono ancora aperte e la memoria del popolo ciadiano è più che mai viva. Se tutti, dagli uomini politici ai religiosi, dai commercianti ai funzionari, dagli agricoltori agli allevatori parlano incessantemente della coabitazione pacifica è perché il rischio di rituffarsi nella guerra civile è ancora alto. E il dente è avvelenato.

La sentenza di Habré è attesa per maggio. Giusto la data del possibile ballottaggio. La giustizia dei tribunali e il verdetto degli elettori sembrano rincorrersi. 

Ce la faranno i ciadiani a voltare finalmente pagina?