mercoledì 28 agosto 2013

Tempo presente

Ricevo da padre Andrea, carissimo amico e fratello saveriano in Mozambico, e pubblico con gioia


Dondo, 21 luglio 2013


Tempo presente 1. Tempo di calendario e tempo vissuto

C’è il tempo del calendario e c’è il tempo della vita. Può accadere che i due non coincidano proprio esattamente: sono passati pochi mesi di calendario, ma non so quanti di vita. Vertigini da verticalità di tempo vissuto. O, forse, vertigini da tempo africano. Da fine settembre mi sposterò nel villaggio di Chemba, cinquecento chilometri a nord-ovest di Dondo. Chemba, che si pronuncia con “ce” di “c’era una volta”. Chemba: riva destra del grande fiume Zambesi, nella pura, secca e povera savana africana. Chemba, che significa: oltre a Chemba, altre ottanta comunità sparse in altrettanti villaggi di capanne. Più una scuola. Il lavoro pare non manchi: dovremmo essere in tre. A Chemba si parla pressoché solo il cisena. Per questo, qualche settimana fa ho cominciato lo studio della grammatica. Il mio professore si chiama Fernando ed è un missionario spagnolo felicemente in Mozambico dal 1964. Quasi una vita. Fernando è spirito schietto dal sorriso largo che si stringe quando fuma la sua sigaretta dopo pranzo. Ha visto nascere questo paese, lo ha visto combattere durante la lotta di indipendenza, lo ha visto grondare sangue nei sedici anni di guerra civile. Ama questo popolo come una madre che ha visto nascere suo figlio.

Tempo presente 2. Tempo schiacciato sul presente

D’improvviso ci si sveglia bambini sillabando parole dal suono nuovo e dal sapore un po’ bucolico: qui non si sopravvive senza sapere che mbuzi è capra, nkhuku è gallina, dzongwe è gallo, mpunga è riso. Memorabile la prima lezione: «La bambina è venuta con una capra? No, la bambina è venuta con due capre». Ci si sente ulteriormente ospiti, perché una lingua non è né un dettaglio, né un souvenir. È il sentiero sacro irrinunciabile per chi mette i suoi passi in direzione di una cultura altra, chiedendo il permesso di entrare. Cultura è vastità esistenziale, è spazio rarefatto e, al tempo stesso, così nettamente percettibile. Cultura sono le radici di un popolo, sono le impronte delle generazioni passate. Cultura è il modo con cui un popolo entra il relazione con il mondo: cammino senza fine che comincia con il dare il nome alle cose.

Il cisena è una lingua africana bantu. Contrariamente alle lingue europee, le lingue bantu formano le parole aggiungendo o modificando il prefisso della radice. Non la desinenza, quindi. Semplice a dirsi, meno a farsi. Così se albero è muti, alberi è miti. Se mano è dzanja, mani è manja. Questo vale per il singolare e il plurale dei sostantivi, per i complementi, per il tempo e per il modo dei verbi. Per le lingue europee, la difficoltà sta alla fine della parola. Per le lingue africane bantu la difficoltà sta all’inizio: formulate le prime lettere, il resto della parola scivola via. Le parole sono montagne. Quelle europee sono salite, quelle bantu sono discese.

Nella lingua cisena, il tempo passato non è proprio un passato, ma un passato che indica una azione cominciata nel presente. Il tempo futuro non è proprio un futuro, ma un presente con una certa proiezione per un futuro immediato. Mentre il presente è un presente continuo, che indica una azione che si compie abitualmente. Insomma, il tempo passato e il tempo futuro si danno sempre in relazione con il tempo presente e il tempo presente, a sua volta, è un presente in atto. Il tempo cisena è un tempo schiacciato sul presente. E anche il mio tempo, di questi tempi – con Fabio che è in Italia per vacanze e capitolo dei Saveriani e qui si è rimasti in due con una parrocchia di 75.000 abitanti e di 24 comunità, la più distante delle quali si trova a tre ore di jeep quando non piove -  è piuttosto schiacciato sul presente.

Tempo presente 3. Tempo violento

Alle 4 del mattino di lunedì 17 giugno, uomini armati attaccano un deposito militare a Savane, uccidendo sette militari. Savane è un villaggio che rientra territorialmente sotto la nostra parrocchia, a 30 chilometri da Dondo. Lì abbiamo due comunità: são Zacarias e são Quisito. Il governo accusa gli ex ribelli della Renamo, che però smentiscono. La polizia afferma che non sussistono elementi sufficienti per individuare i responsabili. Nei giorni successivi un autobus è attaccato e dato alle fiamme sulla strada nazionale n°1 a 150 chilometri da Dondo e quattro civili sono uccisi. Stavolta la Renamo rivendica. Dopo sedici anni di guerra civile che ha mietuto più di un milione di vite umane e dopo ventuno anni di pace, le relazioni tra il governo della Frelimo e gli ex ribelli della Renamo sono estremamente tese.  Il 20 novembre ci saranno le elezioni amministrative e l’anno prossimo le presidenziali. La posta in gioco è alta. Qualche analista politico fuori dal coro parla di un accordo tacito tra i due ex nemici per spartirsi il potere e di una strategia della tensione volutamente creata. E quando c’è tensione, chi ne trae beneficio è chi il potere già lo detiene.

Per causa dei fatti di Savane, per tre giorni abbiamo qui a Dondo metà esercito mozambicano e metà stampa nazionale. Con Chique, aspettiamo il venerdì per visitare la zona. L’area è fortemente militarizzata e la gente ha paura, tanto da non andare neppure in campagna, nonostante sia il tempo di raccolta della manioca. Per il sabato successivo decidiamo una Eucaristia per la pace. Torno così a Savane assieme ad un gruppo di ragazzi e ad un catechista che traduce dal portoghese al cisena. La chiesetta di são Quisito è gremita di gente che si è fatta chilometri dalla campagna circostante per potere pregare. Nell’omelia diciamo che pace non è solo assenza di guerra, che pace non è solo frutto di rispetto e dialogo. Ci chiediamo: «Può esserci pace se c’è ingiustizia e se la disuguaglianza sociale aumenta? Può esserci pace se il treno che passa qui davanti quattro volte al giorno porta via tonnellate di carbone minerale e qui le famiglie fanno la fame?». Alcune nonne anziane prorompono nel grido del ndhungulo, massima espressione di gioia, riservata ai matrimoni e alle grandi feste. Proseguiamo: «Può esserci pace se c’è corruzione? Può esserci pace se i politici hanno le tasche e le pance sempre più gonfie? Può esserci pace se per iscriversi a scuola o per passare un esame i nostri ragazzi provenienti da famiglie povere devono pagare sottobanco i professori e le ragazze devono spesso vendere il proprio corpo?». Di nuovo, le nonne prorompono nel ndhungulo e tutti battono le mani. Diciamo che «tendere ndi basa yatu»: la pace è nostro lavoro. La pace dipende da noi, perché è il frutto del nostro impegno per lasciare questo paese un po’ migliore. Scrivo sul diario: «Pregare è grido collettivo di ciò che si ha paura di bisbigliare da soli. Pregare è liberarsi ed essere liberati. Pregare è lottare. Pregare è risorgere. Pregare è legare cielo e terra. Pregare è riconoscere che, in questa esplosione della vita sulla morte, non si è né soli, né abbandonati. Pregare è credere fermamente che, in questo cammino per la giustizia verso la pace, si è presi per mano. Sì, si è presi per mano».

Tempo presente 4. Quotidianità e tempo di resistenza

C’è, infine, il tempo presente che è la quotidianità di ogni giorno, dove allegria e sofferenza, miseria e potenza della vita sono così mirabilmente impastate assieme. La gioia del signor Jorge, che chiede il battesimo a 92 anni. Il matrimonio tra il signor Raulo e la signora Leonora, che scelgono di sposarsi dopo una vita insieme e dopo dodici figli. La festa dei cinque anni di scout a Dondo, con il mitico gioco dello scout-ball che, dopo essere stato riesumato dalla memoria, per la prima volta in assoluto, è arrivato in Mozambico. L’Eucaristia in carcere, con i detenuti che rappresentano la parabola del buon samaritano e nessuno vuole fare la parte dei briganti. La gratitudine di famiglie povere e di vedove che, grazie alle generose offerte di molti amici dall’Italia, in questi mesi in cui non piove, sono aiutate a rimettere in sesto il tetto della propria casa.

La quotidianità di questo tempo presente è più che mai resistenza. Resistenza in difesa di Mandruze, dei tremila ettari di terra benedetti dal sole, dall’acqua e dal lavoro di migliaia di mani e di zappe, che una grande impresa cinese, in tacito connubio con le autorità locali e senza previa consultazione pubblica, vuole strappare alla popolazione di Dondo. Resistenza, «perché Mandruze è riso, riso è cibo e cibo è vita. E toglierci Mandruze significa ucciderci». È diventato uno slogan assieme a «Levarci Mandruze è contro il Vangelo e contro la legge». È vero. Il Mozambico nel 1997 si è regalato una bellissima e democratica Legge della Terra che tutela i piccoli agricoltori a conduzione famigliare contro i grandi possidenti terrieri. Il mese scorso, abbiamo organizzato una giornata di formazione sulla Legge della Terra, con l’aiuto della Commissione diocesana di Giustizia e Pace che l’ha tradotta in cisena. Così, se fino a tre mesi fa Mandruze era argomento tabù e la gente aveva quasi paura a parlarne, ora se ne discute con il sorriso sulla bocca e la convinzione che «Mandruze è nostra e nessuno può levarcela». Nell’offertorio dell’Eucaristia, ogni domenica, la gente dice grazie, regalandoci chili e chili di riso. Per paura di perdere le elezioni amministrative del 20 novembre, è interesse del Municipio e della Provincia che non si parli di Mandruze. Così il 25 di giugno, anniversario dell’indipendenza del Mozambico, per la prima volta negli ultimi anni, la chiesa cattolica non è stata invitata alla manifestazione pubblica che si tiene tradizionalmente nella piazza di Dondo. In questi giorni stiamo lavorando - a fatica - alla costruzione di una piattaforma che unisca le diverse chiese. Mentre la società civile, intesa come pluralità di soggetti collettivi, liberi ed autonomi di fronte allo stato e al mercato, di fatto, non esiste. O la si sta costruendo.

Conclusione. Tempo presente del verbo vivere

Tempo presente del verbo vivere, prima persona singolare. In italiano sarebbe: «io vivo». In cisena non esiste il verbo «vivere», esiste solo il sostantivo «vita» che è «moyo». Pertanto si dice: «Ndisakhala na moyo». Che letteralmente sarebbe: «Sto nella vita». Sì, sto nella vita, profondamente grato di esserci. Sto nella vita: in questa terra, assieme a questo popolo, nell'anno trentaquattresimo... di questa vita.
Um abraço!

Andrea

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