sabato 31 agosto 2013

Morte ad Am Sinene




(Nonostante una vicenda di morte scelgo una foto di vita e resurrezione...la gioia dei nostri ragazzi per le strade)



Nella notte tra martedi 27 e mercoledi 28 agosto nella prigione di Am Sinene a N’Djamena 5 detenuti sono morti asfissiati in stanze strettisssime dove passano la notte, meglio cercano di sopravvivere. In stanzette di 4 metri per 4, senza finestre, si contendono il suolo anche fino a 65-70 persone. In un carcere da massimo 500 posti vivono più di 1500 persone! 

La notte, anche ora in stagione delle piogge, fa caldo e non circola aria. I detenuti passano la notte per lo più in piedi oppure seduti come possono uno sopra all’altro. Solo le persone più anziane sono lasciate riposare per qualche ora sdraiate a terra. Pochi privilegiati possono dormire all’aperto sotto la tettoia in lamiera che abbiamo costruito insieme con la comunità cristiana. 

Me lo raccontano i prigionieri stessi affranti dal dolore poche ore fa, quando, come al solito, di sabato, mi reco in carcere per le visite, l’ascolto e la celebrazione dell’Eucarestia. Ne sono testimoni suor Assunta, missionaria spagnola del Sacro Cuore, Suor Marceline, ciadiana, e Venance, novizio comboniano originario del Benin. Decidiamo di contattare la Lega Ciadiana dei diritti dell’uomo e portarla in carcere. Parleremo con le autorità. Dobbiamo smuovere le acque. Tutto questo é indegno! La sofferenza di questa gente urla a Dio e all’umanità il desiderio di vita contro ogni oppressione e schiavitù.

 Il grido arriva dritto alle nostre coscienze addormentate e narcotizzate...come faremo stanotte a dormire in pace?

Comunicato alla Misna (www.misna.org) di sabato 31 agosto 2013
 


mercoledì 28 agosto 2013

Tempo presente

Ricevo da padre Andrea, carissimo amico e fratello saveriano in Mozambico, e pubblico con gioia


Dondo, 21 luglio 2013


Tempo presente 1. Tempo di calendario e tempo vissuto

C’è il tempo del calendario e c’è il tempo della vita. Può accadere che i due non coincidano proprio esattamente: sono passati pochi mesi di calendario, ma non so quanti di vita. Vertigini da verticalità di tempo vissuto. O, forse, vertigini da tempo africano. Da fine settembre mi sposterò nel villaggio di Chemba, cinquecento chilometri a nord-ovest di Dondo. Chemba, che si pronuncia con “ce” di “c’era una volta”. Chemba: riva destra del grande fiume Zambesi, nella pura, secca e povera savana africana. Chemba, che significa: oltre a Chemba, altre ottanta comunità sparse in altrettanti villaggi di capanne. Più una scuola. Il lavoro pare non manchi: dovremmo essere in tre. A Chemba si parla pressoché solo il cisena. Per questo, qualche settimana fa ho cominciato lo studio della grammatica. Il mio professore si chiama Fernando ed è un missionario spagnolo felicemente in Mozambico dal 1964. Quasi una vita. Fernando è spirito schietto dal sorriso largo che si stringe quando fuma la sua sigaretta dopo pranzo. Ha visto nascere questo paese, lo ha visto combattere durante la lotta di indipendenza, lo ha visto grondare sangue nei sedici anni di guerra civile. Ama questo popolo come una madre che ha visto nascere suo figlio.

Tempo presente 2. Tempo schiacciato sul presente

D’improvviso ci si sveglia bambini sillabando parole dal suono nuovo e dal sapore un po’ bucolico: qui non si sopravvive senza sapere che mbuzi è capra, nkhuku è gallina, dzongwe è gallo, mpunga è riso. Memorabile la prima lezione: «La bambina è venuta con una capra? No, la bambina è venuta con due capre». Ci si sente ulteriormente ospiti, perché una lingua non è né un dettaglio, né un souvenir. È il sentiero sacro irrinunciabile per chi mette i suoi passi in direzione di una cultura altra, chiedendo il permesso di entrare. Cultura è vastità esistenziale, è spazio rarefatto e, al tempo stesso, così nettamente percettibile. Cultura sono le radici di un popolo, sono le impronte delle generazioni passate. Cultura è il modo con cui un popolo entra il relazione con il mondo: cammino senza fine che comincia con il dare il nome alle cose.

Il cisena è una lingua africana bantu. Contrariamente alle lingue europee, le lingue bantu formano le parole aggiungendo o modificando il prefisso della radice. Non la desinenza, quindi. Semplice a dirsi, meno a farsi. Così se albero è muti, alberi è miti. Se mano è dzanja, mani è manja. Questo vale per il singolare e il plurale dei sostantivi, per i complementi, per il tempo e per il modo dei verbi. Per le lingue europee, la difficoltà sta alla fine della parola. Per le lingue africane bantu la difficoltà sta all’inizio: formulate le prime lettere, il resto della parola scivola via. Le parole sono montagne. Quelle europee sono salite, quelle bantu sono discese.

Nella lingua cisena, il tempo passato non è proprio un passato, ma un passato che indica una azione cominciata nel presente. Il tempo futuro non è proprio un futuro, ma un presente con una certa proiezione per un futuro immediato. Mentre il presente è un presente continuo, che indica una azione che si compie abitualmente. Insomma, il tempo passato e il tempo futuro si danno sempre in relazione con il tempo presente e il tempo presente, a sua volta, è un presente in atto. Il tempo cisena è un tempo schiacciato sul presente. E anche il mio tempo, di questi tempi – con Fabio che è in Italia per vacanze e capitolo dei Saveriani e qui si è rimasti in due con una parrocchia di 75.000 abitanti e di 24 comunità, la più distante delle quali si trova a tre ore di jeep quando non piove -  è piuttosto schiacciato sul presente.

Tempo presente 3. Tempo violento

Alle 4 del mattino di lunedì 17 giugno, uomini armati attaccano un deposito militare a Savane, uccidendo sette militari. Savane è un villaggio che rientra territorialmente sotto la nostra parrocchia, a 30 chilometri da Dondo. Lì abbiamo due comunità: são Zacarias e são Quisito. Il governo accusa gli ex ribelli della Renamo, che però smentiscono. La polizia afferma che non sussistono elementi sufficienti per individuare i responsabili. Nei giorni successivi un autobus è attaccato e dato alle fiamme sulla strada nazionale n°1 a 150 chilometri da Dondo e quattro civili sono uccisi. Stavolta la Renamo rivendica. Dopo sedici anni di guerra civile che ha mietuto più di un milione di vite umane e dopo ventuno anni di pace, le relazioni tra il governo della Frelimo e gli ex ribelli della Renamo sono estremamente tese.  Il 20 novembre ci saranno le elezioni amministrative e l’anno prossimo le presidenziali. La posta in gioco è alta. Qualche analista politico fuori dal coro parla di un accordo tacito tra i due ex nemici per spartirsi il potere e di una strategia della tensione volutamente creata. E quando c’è tensione, chi ne trae beneficio è chi il potere già lo detiene.

Per causa dei fatti di Savane, per tre giorni abbiamo qui a Dondo metà esercito mozambicano e metà stampa nazionale. Con Chique, aspettiamo il venerdì per visitare la zona. L’area è fortemente militarizzata e la gente ha paura, tanto da non andare neppure in campagna, nonostante sia il tempo di raccolta della manioca. Per il sabato successivo decidiamo una Eucaristia per la pace. Torno così a Savane assieme ad un gruppo di ragazzi e ad un catechista che traduce dal portoghese al cisena. La chiesetta di são Quisito è gremita di gente che si è fatta chilometri dalla campagna circostante per potere pregare. Nell’omelia diciamo che pace non è solo assenza di guerra, che pace non è solo frutto di rispetto e dialogo. Ci chiediamo: «Può esserci pace se c’è ingiustizia e se la disuguaglianza sociale aumenta? Può esserci pace se il treno che passa qui davanti quattro volte al giorno porta via tonnellate di carbone minerale e qui le famiglie fanno la fame?». Alcune nonne anziane prorompono nel grido del ndhungulo, massima espressione di gioia, riservata ai matrimoni e alle grandi feste. Proseguiamo: «Può esserci pace se c’è corruzione? Può esserci pace se i politici hanno le tasche e le pance sempre più gonfie? Può esserci pace se per iscriversi a scuola o per passare un esame i nostri ragazzi provenienti da famiglie povere devono pagare sottobanco i professori e le ragazze devono spesso vendere il proprio corpo?». Di nuovo, le nonne prorompono nel ndhungulo e tutti battono le mani. Diciamo che «tendere ndi basa yatu»: la pace è nostro lavoro. La pace dipende da noi, perché è il frutto del nostro impegno per lasciare questo paese un po’ migliore. Scrivo sul diario: «Pregare è grido collettivo di ciò che si ha paura di bisbigliare da soli. Pregare è liberarsi ed essere liberati. Pregare è lottare. Pregare è risorgere. Pregare è legare cielo e terra. Pregare è riconoscere che, in questa esplosione della vita sulla morte, non si è né soli, né abbandonati. Pregare è credere fermamente che, in questo cammino per la giustizia verso la pace, si è presi per mano. Sì, si è presi per mano».

Tempo presente 4. Quotidianità e tempo di resistenza

C’è, infine, il tempo presente che è la quotidianità di ogni giorno, dove allegria e sofferenza, miseria e potenza della vita sono così mirabilmente impastate assieme. La gioia del signor Jorge, che chiede il battesimo a 92 anni. Il matrimonio tra il signor Raulo e la signora Leonora, che scelgono di sposarsi dopo una vita insieme e dopo dodici figli. La festa dei cinque anni di scout a Dondo, con il mitico gioco dello scout-ball che, dopo essere stato riesumato dalla memoria, per la prima volta in assoluto, è arrivato in Mozambico. L’Eucaristia in carcere, con i detenuti che rappresentano la parabola del buon samaritano e nessuno vuole fare la parte dei briganti. La gratitudine di famiglie povere e di vedove che, grazie alle generose offerte di molti amici dall’Italia, in questi mesi in cui non piove, sono aiutate a rimettere in sesto il tetto della propria casa.

La quotidianità di questo tempo presente è più che mai resistenza. Resistenza in difesa di Mandruze, dei tremila ettari di terra benedetti dal sole, dall’acqua e dal lavoro di migliaia di mani e di zappe, che una grande impresa cinese, in tacito connubio con le autorità locali e senza previa consultazione pubblica, vuole strappare alla popolazione di Dondo. Resistenza, «perché Mandruze è riso, riso è cibo e cibo è vita. E toglierci Mandruze significa ucciderci». È diventato uno slogan assieme a «Levarci Mandruze è contro il Vangelo e contro la legge». È vero. Il Mozambico nel 1997 si è regalato una bellissima e democratica Legge della Terra che tutela i piccoli agricoltori a conduzione famigliare contro i grandi possidenti terrieri. Il mese scorso, abbiamo organizzato una giornata di formazione sulla Legge della Terra, con l’aiuto della Commissione diocesana di Giustizia e Pace che l’ha tradotta in cisena. Così, se fino a tre mesi fa Mandruze era argomento tabù e la gente aveva quasi paura a parlarne, ora se ne discute con il sorriso sulla bocca e la convinzione che «Mandruze è nostra e nessuno può levarcela». Nell’offertorio dell’Eucaristia, ogni domenica, la gente dice grazie, regalandoci chili e chili di riso. Per paura di perdere le elezioni amministrative del 20 novembre, è interesse del Municipio e della Provincia che non si parli di Mandruze. Così il 25 di giugno, anniversario dell’indipendenza del Mozambico, per la prima volta negli ultimi anni, la chiesa cattolica non è stata invitata alla manifestazione pubblica che si tiene tradizionalmente nella piazza di Dondo. In questi giorni stiamo lavorando - a fatica - alla costruzione di una piattaforma che unisca le diverse chiese. Mentre la società civile, intesa come pluralità di soggetti collettivi, liberi ed autonomi di fronte allo stato e al mercato, di fatto, non esiste. O la si sta costruendo.

Conclusione. Tempo presente del verbo vivere

Tempo presente del verbo vivere, prima persona singolare. In italiano sarebbe: «io vivo». In cisena non esiste il verbo «vivere», esiste solo il sostantivo «vita» che è «moyo». Pertanto si dice: «Ndisakhala na moyo». Che letteralmente sarebbe: «Sto nella vita». Sì, sto nella vita, profondamente grato di esserci. Sto nella vita: in questa terra, assieme a questo popolo, nell'anno trentaquattresimo... di questa vita.
Um abraço!

Andrea

martedì 27 agosto 2013

Non voltarti indietro...




Sono le parole del vangelo di Luca che più mi accompagnano nella ripartenza e nello stacco mai facile dalla famiglia e dagli amici:

"Chi ha messo mano all'aratro e si volta indietro non é adatto per il regno"

Canto le note di " Vieni e Seguimi" con quel brivo di "..e non voltarti indietro và..."

Già al mattino in macchina verso Bologna meditavo il Salmo 34 e quell'invito a

"guardare a lui per essere raggianti"

E così si riparte, con gioia, verso quell'Africa che mi sta ribaltando come un calzino e mi sta insegnando a vivere...

Porto nel cuore incontri, persone, celebrazioni, gruppi, volti, racconti, risate, abbracci che mi scaldano il cuore e che mi testimoniano la bellezza e la verità di quel centuplo che Gesù ha promesso ai suoi amici che osano andare e lasciare...questo dà una carica nel cammino che non hai idea!

Lascio però un Italia alla deriva e questa é una ferita profonda al cuore...anche se per le strade ho incontrato una speranza che non molla, sempre e nonostante tutto. Più forte della crisi...

Non posso far altro allora che continuare a ringraziare di tutto ciò che ho ricevuto e affidare tutto...

Ci risentiremo tra un pò con le impressioni della reimmersione,

Vi abbraccio foirte e vi porto al cuore di Dio

Vostro amico e fratello

Filo, Loba-Loba

I have a dream

Ripropongo il testo-sogno di Martin Luther King pronunciato 50 anni fa alla marcia del popolo nero d'America


I have a dream - Washington, 28 agosto 1963, Martin Luther King pronuncia il suo storico discorso

 
Sono orgoglioso di unirmi a voi oggi in quella che passerà alla storia come la piú grande manifestazione per la libertà nella storia del nostro paese.

Cento anni fa, un grande Americano, sulla cui ombra simbolica ci troviamo oggi, firmó la Proclamazione per l' Emancipazione. Questo decreto importantissimo arrivò come un faro di speranza per milioni dischiavi Negri bruciati dalle fiamme di questa raggelante ingiustizia.Arrivó come una gioiosa aurora dopo una lunga notte di schiavitú.

Peró cento anni dopo, il Negro non è ancora libero; cento anni dopo, la vita del Negro è ancora dolorosamente segnata dai ferri della segregazione e dalle catene della discriminazione; cento anni dopo,il Negro vive in un' isola deserta in mezzo a un immenso oceano di prosperità materiale; cento anni dopo, il Negro tuttora langue negli angoli della società americana e si trova in esilio nella propriaterra.

Cosí siamo venuti qui oggi a denunciare una condizione vergognosa. In un certo senso siamo venuti nella capitale del nostro paese per incassare un assegno. Quando gli artefici della nostra repubblica scrissero le magnifiche parole della Costituzione e della Dichiarazione d'Indipendenza, stavano firmando una cambiale di cui ogni americano era garante. Questa cambiale era la promessa che tutti gli uomini, sia, l'uomo negro e l'uomo bianco, avrebbero avuto garantiti i diritti inalienabili alla vita, alla libertà, e al perseguimento della felicità.

È ovvio oggi che l'America è venuta meno a questa promessa per quanto riguarda i suoi cittadini di colore. Invece di onorare questo obbligo sacro, l'America ha dato alla gente negra un assegno a vuoto; un assegno che è tornato indietro con il timbro fondi insufficienti. Peró ci rifiutiamo di credere che la Banca della Giustizia sia fallita. Ci rifiutiamo di credere che non ci siano fondi sufficienti nelle grandi casseforti dell'opportunità di questo paese. E allora siamo venuti a incassare quest'assegno, l'assegno che ci darà a richiesta le ricchezze della libertà e la sicurezza della giustizia.

Inoltre siamo venuti in questo luogo sacro per ricordare all'America l'urgenza impetuosa del momento presente. Questo non è il momento di raffreddarsi o prendere i tranquillanti della gradualità. Ora è il momento di realizzare le promesse di Democrazia; ora è il momento di uscire dall'oscura e desolata valle della segregazione verso il cammino illuminato della giustizia razziale; ora è il momento di tirar fuori il nostro paese dalle sabbie mobili dell'ingiustizia razziale sul terreno solido della fraternità; ora è il momento difare della giustizia una realtà per tutti i figli di Dio. Sarebbe fatale per la nazione passar sopra l'urgenza di questo momento.Quest'estate soffocante per il malcontento legittimo del Negro non terminerà fino a quando non venga un autunno vigoroso di libertà e uguaglianza.
Il 1963 non è una fine, ma un principio. E coloro che speravano che il Negro avesse bisogno di sfogarsi per essere contento, avranno un duro risveglio se il paese ritornerà alla solita situazione. Non ci sarà riposo né tranquillità in America fino a quando al Negro non verranno garantiti i suoi diritti di cittadino. Il turbine della ribellione continuerà a scuotere le basi della nostra nazione fino ache non sorgerà il giorno splendente della giustizia.
Però c'è qualcosa che io debbo dire alla mia gente, che sta sulla soglia logora che conduce al palazzo di giustizia. Nel processo di conquista del posto che ci spetta, non dobbiamo essere colpevoli di azioni inique. Non cerchiamo di soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla tazza del rancore e dell'odio. Dobbiamo sempre condurre la nostra lotta su un piano di dignità e disciplina. Non dobbiamo permettere che le nostre proteste creative degenerino in violenza fisica. Ancora una volta dobbiamo elevarci alle altezze maestose dell'incontro tra forza fisica e forza dell'anima. La nuova meravigliosa militanza, che ha inghiottito la comunità negra, non dovrà condurci a diffidare di tutta la gente bianca. In quanto parecchi dei nostri fratelli bianchi, come oggi si vede dalla loro presenza qui, si sono resi conto che il loro destino è legato al nostro. E si sono resi conto che la loro libertà è inestricabilmente legata alla nostra. Non possiamo camminare soli. E camminando, dobbiamo fare la promessa che marceremo sempre in avanti.

Non possiamo tornare indietro.

Ci sono coloro che stanno chiedendo ai devoti dei Diritti Civili, Quando sarete soddisfatti? Non potremo mai essere soddisfatti finché il Negro sarà vittima degli orrori indescrivibili della crudeltà poliziesca; non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri corpi, pesanti per la stanchezza del viaggio, non potranno riposare negli alberghi delle autostrade e delle città; non potremo mai essere soddisfatti finché la possibiltà di movimento del Negro sarà da un piccolo ghetto ad uno piú grande; non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri figli saranno privati della propria personalità e derubati della dignità da un avviso scritto Solo Per Bianchi; non potremo mai essere soddisfatti finché il Negro del Mississippi non potrà votare ed il Negro di New York crederà di non avere nessuno per cui votare. No! No, non siamo soddisfatti, e non saremo soddisfatti fino a quando la giustizia non scorrerà come l'acqua e la rettitudine come una forte corrente.

Sono ben consapevole che alcuni di voi son venuti fin qui con grandi dolori e tribolazioni. Alcuni sono arrivati freschi da anguste celle di prigione. Alcuni di voi sono venuti da luoghi dove la ricerca della libertà li ha lasciati colpiti dalla tormenta della persecuzione e barcollanti per i venti della brutalità poliziesca.Voi altri siete i veterani della sofferenza creativa. Continuate a lavorare con la fede che le sofferenze immeritate redimono. Tornate nel Mississippi; tornate in Alabama; tornate nella Carolina del Sud; tornate in Georgia; tornate in Louisiana; tornate nei tuguri e nei ghetti delle nostre città del Nord, sapendo che in un modo o nell'altro questa situazione può essere e sarà cambiata. Non ci rotoliamo nella valle della disperazione.

Per cui vi dico, amici miei, che anche se affronteremo le difficoltà di oggi e di domani, ancora io ho un sogno. È un sogno profondamente radicato nel sogno Americano, che un giorno questa nazione si solleverà e vivrà nel vero significato del suo credo, noialtri manteniamo questa verità evidente, che tutti gli uomini sono creati uguali. Io sogno che nella terra rossa di Georgia, i figli di quelli che erano schiavi ed i figli di quelli che erano padroni degli schiavi si potranno sedere assieme alla tavola della fraternità. Io sogno che un giorno anche lo stato di Mississippi, uno stato ardente per il calore della giustizia, ardente per il calore dell'oppressione, sarà trasformato in un oasi di libertà egiustizia. Io sogno che i miei quattro figli piccoli un giorno vivranno in una nazione dove non saranno giudicati per il colore della pelle, ma per il contenuto della loro personalità.

Oggi ho un sogno!

Sogno che un giorno in Alabama, con i suoi razzisti immorali, con un Governatore dalle labbra sgocciolanti parole d'interposizione e annullamento, un giorno, là in Alabama, piccoli Negri, bambini e bambine, potranno unire le loro mani con piccoli bianchi, bambini e bambine, come fratelli e sorelle.

Oggi ho un sogno!

Sogno che un giorno ogni valle sarà elevata, ed ogni collina e montagna sarà spianata. I luoghi asperi saranno piani ed i luoghi tortuosi saranno diritti, e la gloria del Signore sarà rivelata ed il genere umano sarà riunito.

Questa è la nostra speranza. Questa è la fede con cui ritorno al Sud. Con questa fede potremo tagliare una pietra di speranza dalla montagna della disperazione. Con questa fede potremo trasformare il suono dissonante della nostra nazione in un armoniosa sinfonia di fraternità. Con questa fede potremo lavorare insieme, pregare insieme, lottare insieme, andare in carcere insieme, sollevarci insieme per la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi, e questo è il giorno. Questo sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio potranno cantare con nuovo significato Il mio paese è tuo, dolce terra di libertà, di te io canto. Terra dove è morto mio padre, terra orgoglio del pellegrino, da ogni lato della montagna facciamo risuonare la libertà. E se l'America sarà una grande nazione,questo si deve avverare.
E quindi lasciate risuonare la libertà dalle cime dei prodigiosi monti del New Hampshire. 
Lasciate risuonare la libertà dalle poderose montagne di New York.
Lasciate risuonare la libertà dalle altitudini degli Alleghenies della Pennsylvania.
Lasciate risuonare la libertà dalle rocce coperte di neve di Colorado.
Lasciate risuonare la libertà dalle coste tortuose della California.
Ma non solo.
Lasciate risuonare la libertà dalla Montagna di Pietra della Georgia.
Lasciate risuonare la libertà dalla montagna Lookout del Tennessee.

Lasciate risuonare la libertà da ogni collina e montagna del Mississippi, da ogni lato della montagna lasciate risuonare la libertà. E quando questo accadrà, e quando lasceremo risuonare la libertà, quando la lasceremo risuonare da ogni villaggio e da ogni casale, da ogni stato e da ogni città, saremo capaci di anticipare il giorno in cui tutti i figli di Dio, uomo Negro e uomo Bianco, Ebreo e Cristiano, Protestante e Cattolico, potremo unire le nostre mani a cantare le parole del vecchio spiritual Negro:
"Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo finalmente liberi."

martedì 13 agosto 2013

Immersione e divisione: il fuoco della Missione




Commento libero al Vangelo di domenica 18 agosto

Lc 12, 49-53



Gesù di Nazaret cammina dritto e deciso su Gerusalemme perché sa bene che il cuore di quel sistema ingiusto che affama e impoverisce la sua gente si trova là. Sulla strada condivide con i suoi amici quanto gli ribolle dentro. Un fuoco che non si tiene, carico di passione per il popolo e di incontenibile voglia di cambiare il mondo. Che non si consuma, come il roveto ardente di Mosé (Es 3). Non quello che distrugge, come chiedono Giacomo e Giovanni per chi non segue il Maestro (Lc 9,54). Ma il fuoco dello Spirito che porta e alimenta vita. Come quello che si accende la sera nei villaggi in fondo al Ciad, all’inizio della stagione secca, per scaldare corpi e tenere lontani bestie selvatiche e serpenti. Per ritrovarlo al mattino al centro di un grappolo di persone che si stringono in attesa dei primi raggi caldi del sole. Ma anche il fuoco che scalda l’acqua per la polenta (di miglio e di sorgo, che in Italia si danno spesso e volentieri agli uccellini e ai maiali!) e per il the e i cuori di coloro che attendono l’unico pasto del giorno!

Quel fuoco Gesù vuole gettarlo sulla terra, non vede l’ora che contagi tutti! E’ venuto per quello, perché tutti abbiano vita abbondante (Gv 10,10). Perché ognuno possa lasciarsi bruciare dentro, come i due di Emmaus (Lc 24,32) dalla Parola di vita e da quel profondo desiderio di spezzare la nostra vita per qualcosa per cui vale la pena vivere e anche morire! Come amava ripetere Martin Luther King. Per questo Gesù parla della sua immersione, il battesimo di fuoco, quello della sua passione, morte e resurrezione. Missione è lasciarsi immergere nell’amore così forte di Dio che è capace di pagare il prezzo più alto. Lasciarsi immergere nella vita del popolo con la sua lingua, cultura, tradizioni, cibi, modi di accompagnare i momenti importanti della vita. Non per assimilare tutto, ma per permettere di passare ogni aspetto della vita al vaglio del Vangelo. Per annunciare quanto fa crescere gli uomini e le donne e denunciare quanto li fa regredire. Andando sempre e comunque oltre! Oltre le religioni, le tradizioni, le convenienze, i colori della pelle, i soldi in tasca. Per cercare di diventare finalmente fratelli. Anche con i musulmani che incontro in capitale, N’Djamena, e sulle strade, ora fangose, del Ciad. L’ultima sera prima di rientrare in Italia mi hanno fatto festa e abbiamo mangiato insieme falene (una specie di farfalloni) fritte! Un modo per condividere amicizia e sogni. E andare oltre pregiudizi e barriere.

Quel fuoco che brucia e quell’immersione che butta dentro, senza paura, nel diverso non sono certo fatti per farci restare tranquilli e in pace. Un missionario porta sempre in cuore sane inquietudini, per dirla alla Tonino Bello, finché sulla terra ci sono ingiustizie e diseguaglianze. Missione è non sedersi mai, mai comodi, perché il fuoco brucia dentro e non puoi spegnerlo. Parola del profeta Geremia! (Ger 20,9). Anche Gesù era inquieto! Non stava certo tranquillo e in pace con l’aria che tirava nella sua terra. Uomo di pace, non in pace. Scomodo e segno di contraddizione! (Lc 2, 34). Capace di portare l’inevitabile divisione tra chi vuole andare avanti con il vecchio e lo status quo (il padre, la madre, la suocera) di un sistema che affama 870 milioni di persone nel mondo e chi vuole invece ribaltare le cose e osare il nuovo (il figlio, la figlia, la nuora) quanto mai urgente. Tra chi si affida alle certezze della legge a servizio dei potenti e chi prova a vivere il Vangelo della rivoluzione a servizio degli ultimi. Tra chi in Ciad si nasconde e si rifugia nelle certezze delle tradizioni secolari che dettano cosa e come fare nei vari frangenti della vita e chi prova la libertà di Gesù di Nazaret e del suo progetto delle Beatitudini. Il bivio tra la schiavitù dell’Egitto e la libertà della Terra Promessa. Tra il marcire dentro la comodità, il privilegio e la “globalizzazione dell’indifferenza” (che anche percorrono, come forti tentazioni, le nostre povere comunità cristiane in Ciad) e il lanciarsi fuori, sull’onda della missione senza frontiere, il rischiare tutto a costo di perdere tutto. Per tutto ritrovare.

Come ci diceva anni fa a Taizé quell’amico e  profeta di Frère Roger:

Meglio buttarsi nell’imprevedibile di Dio che rifugiarsi nelle certezze degli uomini!”.