martedì 14 gennaio 2014

Tracce di missione nel deserto

Condannati all'ottimismo
 




Sono appena uscito dalla moschea centrale di Abéché e l’euforia è alle stelle. E’ il “id al mawlid”, la festa della nascita di Maometto. I fratelli e sorelle musulmani di Abéché ci hanno invitato e con il pastore protestante Osée abbiamo voluto partecipare. Un ecumenismo e un dialogo interreligioso che sono vita quotidiana qui alle porte del deserto. Molto prima che etichette e alte teologie.

A Kalayt nel deserto del Sahara una piccola ma impegnatissima comunità cristiana ci attende per la Messa. Arriviamo dopo un viaggio di 5 ore e l’accoglienza è calorosissima: saluti e abbracci, acqua e the. La Messa è un concentrato di gioia, canti e danze…Dio non abbandona mai e lo abbiamo sentito sulla pelle. Loro sono dei coraggiosi perché non c’è niente tutto attorno e non si produce niente: troppo poca l’acqua. Si vive del commercio e dei prodotti che arrivano da Libia e Sudan. La notte riunione fino a tardi con la comunità e poi la cena: riso e agnello.

A Tine, alla frontiera col Darfur, non vedevano un prete da 6 anni! Ne hanno visti due d’un colpo: Abakar, confratello sudanese del sud e me. La gioia delle donne non stava nella pelle e alle offerte in processione ci hanno portato soldi, i pounds sudanesi, e un cartone di pasta. Riunione infinita per ricominciare ad accompagnare la comunità cristiana e poi cadiamo sfiniti sulla stuoia per dormire.

A Guereda, una piccola comunità cristiana, soffia forte il vento freddo dell’Harmattan. Si dorme con le coperte…e quando comunichiamo che abbiamo trovato i soldi per la costruzione della chiesetta con le due sale per alfabetizzazione e biblioteca ci si scalda con la danza.

A Iriba siamo ospiti dentro il casermone delle Nazioni Unite. Dopo la messa dell’Epifania mangiamo pasta e pollo con le mani. La comunità cristiana ci confida le sue pene e la sua difficoltà e convivere con i musulmani. Che continuano a tirare sassi, forzare le porte la notte, lasciare escrementi sulle maniglie. Poi visitiamo il villaggio che è quadruplicato con l’arrivo dei rifugiati dal Darfur e delle organizzazioni umanitarie. Ci accoglie con grande gioia il medico responsabile dell’ospedale: ubriaco perso non finisce di ripetere che “siamo condannati all’ottimismo”…una frase che ci marca dentro, nonostante l’alcool e la difficoltà di pronunciarla. Passiamo a visitare il sultano che ci accoglie col sorriso e ci chiede se episodi di teppismo si sono verificati ancora.

E così il tempo del Natale è passato. Ma continua a scavare nel quotidiano. Lasciando tracce indelebili sul cammino…e sulla sabbia dove la nostra macchina si è arenata e solo con l’aiuto di una corda e di un camion che passava ce la siamo cavati. Un sacco di giovani si sentono interpellati dalla Parola che trasforma, vengono a parlare, a confessarsi a chiedere di essere accompagnati. I carcerati cantano a squarciagola nella messa con l’aiuto di Emmanuel e Nabia, due ottimi coristi. Una della guardie, cristiano, alla fine della messa dice: “ E’ la prima volta che mi accorgo che ci sono dei cristiani qui in prigione…”

Siamo condannati all’ottimismo…

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